Renzo Ulivieri e la zona Mao

In by Simone

L’ultimo, forse l’unico, maoista del calcio italiano lo incontriamo a Pechino in un albergo particolare: è posto all’interno dello stadio dei Lavoratori, zona di ambasciate e movida pechinese, nonché teatro dei successi del Beijing Guoan, vincitore della passata edizione del campionato cinese. Renzo Ulivieri si guarda intorno, è reduce da una conferenza, perché, in veste di presidente dell’Associazione Italiana Allenatori, è in visita per conoscere e confrontarsi con allenatori cinesi per un programma di scambio tra Italia e Cina.

Oggetto: tecnica, tattica e sentimento, che il calcio non è solo strategia. Prima di cominciare l’intervista abbiamo modo di consigliargli alcuni posti dove potrà trovare il busto di Mao, da affiancare a quello già noto di Lenin che leggende ed un suo sorriso rivelatore, raccontano sia in bella vista sulla sua scrivania.

Poi, bisogna partire dal calcio: con Ulivieri però i piani si mischiano e allora più che mai l’arte pedatoria diventa metafora, intuizione, specchio di quanto ci circonda. D’altronde proprio Ulivieri definì la zona «come arma dei deboli, quindi di sinistra». Noto per il suo carattere mica semplice, anzi, cominciamo la nostra chiacchierata proprio da questo: cosa significa per un allenatore di calcio gestire un gruppo di ragazzi, prima ancora che di calciatori. «Non è facile ottenere un sentimento comune all’interno di una squadra. E’ importante che il pensiero di ognuno di loro diventi comune, far in modo che il “noi” diventi il soggetto collettivo. Un giorno un calciatore venne da me e mi disse “noi, mi sono fatto male a una gamba”: capii che avremmo fatto un grande campionato».

Allenare oggi è un mestiere complesso, i tempi cambiano: «un tempo c’era l’investitura, l’allenatore era un imperatore e tutti lo rispettavano. Ogni rivoluzione poi porta dei cambiamenti e oggi se l’allenatore viene riconosciuto come leader, funziona, altrimenti l’allenatore “muore” subito. Non parliamo di cadute cruente, ma il dittatore cade». A proposito di imperatori, dittatori, la domanda è d’obbligo: che pensa Ulivieri di Mourinho? «Per un allenatore straniero venire in Italia non è mai facile, ma lui è bravo. Io l’ho detto ai miei colleghi, occhio perché questo è più italiano di noi». Mourinho e Balottelli, «mi pare che Mourinho lo abbia gestito bene con il sistema del bastone e della carota», allenatori e grandi campioni. Se il dittatore, infatti, si deve confrontare con grandi solisti? Del resto proprio Ulivieri gestì niente meno che Baggio, facendolo anche accomodare un paio di volte in panchina («due mezzi tempi, ma ha giocato il maggior numero di partite nella sua carriera, tornando in nazionale», precisa Ulivieri), tirandone fuori una delle stagioni migliori del divin codino (per altro amatissimo in Cina, come il “principe dagli occhi tristi”): «anche io ho avuto le mie chiusure, anche se il giocatore ha bisogno di essere anche un solista. Il pensiero deve essere quello dell’allenatore, poi è capitato che qualche giocatore mi dicesse, “mister io pensavo”, ecco l’errore, dicevo, lui pensa. Era una battuta, ma era un modo per convogliare ogni solista in una direzione comune.

E’ logico poi che pur avendo una grande squadra servono i grandi solisti. Riguardo Baggio, lui era un grande uomo gol. Nella prospettiva palla-avversario-portiere-porta era il migliore al mondo».

Nella chiacchierata scopriamo anche che Ulivieri ha applicato una sorta di teoria maoista nello spogliatoio: così come Mao simulò, talvolta, spazi per chi la pensava diversamente, salvo poi colpire chi si era esposto, Ulivieri coltivava un velato dissenso all’interno della squadra: «è un modo per tenere sveglio ed in tensione lo spogliatoio, poi se uno è paraculo nella gestione, puoi dire: lascio spazio al dissenso pretendendo pero’ che se il calciatore usa questo spazio, si prenda di conseguenza anche le responsabilità. Se io mi prendevo le responsabilità di fronte a tutti nel caso di una sconfitta, figurarsi se poi il calciatore non se le può prendere con me».

Il calcio di Ulivieri, seppure abbia allenato l’ultima sua squadra, la Reggina, solo nel 2007-2008, sembra quello di un’altra epoca: «forse perché mi si sono intasate le vene o forse perché ho difficoltà a relazionarmi con i calciatori di oggi, con i giovani di oggi, credo sia tutto più difficile. Per dire, un tempo a un calciatore io glielo dicevo: per giocare con me devi fare 10 mila cross al mese, perché non li sai fare. Oggi  è impensabile».
Ed eccoci all’attualità. Ulivieri è anche impegnato nella attività di Sinistra ecologia e libertà, con una visione ottimista sul futuro: «siete voi che scrivete che i giovani non sono interessati alla politica, io vedo invece molta voglia di attivismo. Bisogna lavorare ma innanzitutto fare in modo che gli altri che ti vedono, pensino che sei una persona onesta e perbene. Dalle mie parti abbiamo provato a mettere insieme un po’ di giovani e secondo me i ragazzi hanno voglia di politica. C’è da fare, ma anche da pensare a chi siamo, dobbiamo recuperare tempo perché se perdiamo un’altra generazione è la fine. Giovani e vecchi, perché non capisco la ragione per cui dovrei prendermi un calcio nel culo se ancora ho voglia di fare. E poi c’è l’educazione, la cultura: io la mia figliola la porto alle manifestazioni, il primo maggio, il 25 aprile, ha lo striscione. Qualcuno mi dice che la condiziono. Una volta uno mi disse, “Ulivieri falla scegliere”. Ma perché? se non la educo io, la educhi tu. E quindi io le do la libertà di scegliere, ma l’educazione è proprio rivolta a questo: dare strumenti per scegliere, ma possono arrivare messaggi sbagliati e noi abbiamo il compito di salvaguardare certi valori. Le scelte alla fine non sono mica tante».

E si torna al calcio, la politica allo stadio. Ulivieri precisa: «intanto non è uguale mostrare un pugno chiuso e una svastica allo stadio. E poi io a Livorno, quando sento Bandiera Rossa, mi emoziono, non ci posso fare niente. Poi, certo credo che alla fine la politica non si debba fare allo stadio, pena lo svilimento della politica a meri slogan, proprio quello che dobbiamo invece contrastare con contenuti e sostanza. Ma devo ammettere che certi cori e coreografie emozionano sempre». Poi via, che gli impegni stringono: c’è una passione da condividere. Perfino in Cina.

[Pubblicato su Il Manifesto, il 13 maggio 2010]