Il primo ministro italiano Matteo Renzi, insieme ad una compagine di imprenditori, è giunto in Cina. Due le tappe: Shanghai e Pechino. L’obiettivo è ottenere contratti, rinsaldare rapporti commerciali con la controparte cinese, ma non solo. A questo giro la «missione italiana», senza sfarzo – ci si augura – e senza troppi fronzoli, sembra voler andare al sodo. Nel paese della Muraglia, l’Italia paga un peso enorme dovuto a errori che hanno fatto scivolare il paese in posizioni di bassa classifica nel gradimento dei cinesi, sia politici o imprenditori. I cinesi hanno in generale una grande reputazione dell’Italia; il made in Italy funziona, crea immaginari, stili di vita. Pochi cinesi sanno, però, che l’Italia produce anche vino, tecnologia e altro.
L’immagine è ancorata a quei brand che in Cina vendono da soli, perché ormai stranoti nel mondo. Ma quelle aziende che costituiscono la spina dorsale dell’economia nazionale, seppure in difficoltà, non hanno ricevuto alcun sostegno negli anni precedenti, se non in rare occasioni, per presentarsi a Pechino con un solido armamentario politico ed economico di credibilità. È quello che i businessmen chiamano «sistema».
La visita di Renzi, programmata nei minimi dettagli ed in grado di incrociare i personaggi più rilevanti della vita politica cinese, ha quindi questo obiettivo: ristabilire una graduatoria nella quale l’Italia possa giocare il proprio ruolo, in quello che è ormai il mercato più grande e importante del mondo. È dunque estremamente positivo – e ne va dato atto al team del primo ministro – che Renzi incontri il numero due del paese, il premier Li Keqiang, il numero uno, il presidente Xi Jinping e il governatore della banca centrale cinese, così come l’imprenditore Jack Ma, boss di Alibaba, prossima all’Ipo negli Usa e straordinario veicolo di e-commerce, ormai mondiale.
Queste visite dimostrano, o si spera dimostrino due cose: in primo luogo Renzi deve aver fatto una buona impressione ai dirigenti cinesi, la cui liturgia non affida a tutti gli ospiti l’onore di incontrare le massime cariche; in secondo luogo significa che forse l’Italia, almeno in questo, ha cambiato davvero verso. Si cerca un contatto e dei rapporti che partano dalla considerazione di avere di fronte la seconda potenza economica del mondo, sganciandosi per un attimo dalla spocchia italiana e da legami così «atlantici» da aver sempre messo da parte negli ultimi vent’anni le relazioni con un’economia in rapida espansione come quella cinese.
Per una volta, forse, davvero l’Italia proverà a dialogare con la Cina rispettando la rilevanza mondiale del paese, senza pensare di dover insegnare qualcosa, ma cercando, invece, di trovare le chiavi, i pertugi, per inserirsi nel mercato più vasto del mondo. Scambi commerciali, rapporti culturali (già riconosciuti in Cina, basti pensare che Matteo Ricci il gesuita che arrivò in Cina nel 1500 e conosciuto come Limadou è ben più noto di Marco Polo e rappresenta una valida cartina di tornasole di quanto i cinesi conoscano l’Italia; non si può dire altrettanto del contrario) e possibilità di business: a questo giro la «missione italiana», senza sfarzo – ci si augura – e senza troppi fronzoli, sembra voler andare al sodo.
Come piace ai cinesi. Si tratta di un rapporto a livello di fiducia e di credibilità, tutto da rifondare: sia nei confronti dei cinesi – scottati nel 2010 dalla scoperta delle dimissioni di Scajola dalla stampa, proprio quando lo aspettavano a Pechino – sia nei confronti degli italiani che operano in Cina, da troppo tempo lasciati in balia di loro stessi e di un mercato che, senza valide sponde istituzionali, stritola, frustra e spesso crea nuovi fallimenti. Quando invece dovrebbe essere una straordinaria opportunità.
[Scritto per il manifesto; foto credits: Ambasciata della Repubblica popolare cinese in Italia]