Gli episodi di razzismo sono presenti anche nel mondo cinese, abituato nella storia a sinizzare anche i propri dominatori. Un fatto contraddittorio per un paese che ha fatto della difesa della propria cultura e della propria identità un’arma economica. Di Jada Bai
Quando parlo di razzismo in Italia qualcuno, inevitabilmente, mi dice: «E allora in Cina?» A parte un certo scoramento, è bene chiarire un paio di punti. Urge forse fare prima chiarezza su cosa si intenda per razzismo al giorno d’oggi. La scrittrice Nadeesha Uyangoda, nel suo bellissimo saggio, “L’unica persona nera nella stanza”, riflette su come molti in Italia reputino un atto razzista se c’è stato un assalto violento in cui muore qualcuno. E non invece un atteggiamento delle persone, una lente distorta in un sistema di privilegi di cui si è spesso inconsapevoli. In Italia ad esempio riguarda l’ignavia di intere generazioni che non hanno fatto i conti con il passato coloniale. In Cina esiste il razzismo e lo descrive bene l’articolo di Antonella Ceccagno pubblicato il 29 giugno 2022 sul sito de Il Mulino.
Il fenomeno del razzismo è dunque accostato al nazionalismo, risultato di proprie condizioni storiche, politiche e sociali. Interessa l’orgoglio ferito di un paese che si è trovato “invaso” e umiliato dalle potenze straniere dopo secoli di dominio dell’Asia orientale. Non per nulla in cinese la parola Cina si dice Zhongguo e una delle traduzioni possibili è Paese al centro. La storia poi racconta come molti popoli, cosiddetti barbari e anche quando dominatori, siano stati sinizzati. La sinizzazione è un processo antico che ha reso il popolo cinese molto orgoglioso delle propria grandezza, con il preciso sottotesto di «tutti vogliono diventare come noi.»
È la sensazione di far parte di una delle culture più longeve del mondo e per questo illuminata, superiore, unica. Gli scandali degli ultimi anni nel mondo della moda ne sono un esempio, sopra tutti quello del marchio Dolce&Gabbana. Nel novembre del 2018 infatti, il brand fu accusato di non rispettare l’estetica e la cultura cinese, e i suoi creatori di essere razzisti. All’epoca molti avevano parlato di diversità culturale tra Oriente e Occidente ma la fatale cacciata del marchio è stata messa in moto dai (supposti) screenshot dello stilista Stefano Gabbana che insultavano il “rozzo e inferiore” popolo cinese. In seguito la casa di moda ha dichiarato quegli insulti falsi, ma ormai era troppo tardi, la miccia del nazionalismo ferito si innesca facilmente.
Solo negli ultimi sei anni in Cina ci sono state ben 78 campagne di boicottaggio di brand stranieri come descrive bene quest’articolo di China Files del 13 luglio. Ceccagno nel suo articolo sottolinea quanta strada la Cina debba ancora percorrere sul tema del razzismo. Ad esempio cita un episodio di “black face” durante uno degli show televisivi più seguiti, il Gala di Capodanno lunare, dove ballerini cinesi con il volto truccato di nero avevano messo in scena una simil danza africana. Pochi, anche tra gli internauti cinesi, l’hanno notato o condannato. Un fatto contraddittorio per un paese che ha fatto della difesa della propria cultura e identità un’arma economica. Ceccagno auspica un intervento del governo ma forse mere indicazioni ufficiali non sono sufficienti anche se utili.
Bisognerebbe infatti intervenire drasticamente nell’educazione e nel modo di pensare della popolazione, far fare un percorso di consapevolezza. Ma in Cina non è una priorità, gli stranieri sono un piccolo numero, secondo le statistiche dell’amministrazione nazionale dell’immigrazione sono 4,35 milioni, cioè lo 0,32% dell’intera popolazione. Non è dunque immigrazione su larga scala ma singoli gruppi di expat, persone con un solido background sociale e culturale emigrata per studiare o fare affari. Non ci sono movimenti di richiesta di diritti civili da parte di seconde generazioni, persone nate e/o cresciute in Cina. La grande differenza sta infatti nella portata del fenomeno e delle ricadute sulle persone.
In Italia ad esempio i cittadini stranieri rappresentano l’8,3% della popolazione e nelle nostre scuole si stima ci sia un milione di minori con background migratorio. Da quasi vent’anni movimenti come Rete G2, formata dalle cosiddette seconde generazioni, chiedono riforme più rappresentative. In Italia si tratta dunque di istanze di nuovi cittadini, di condivisione di diritti e privilegi, di una nuova idea di italianità che abbracci anche persone nate e/o cresciute qui. In Cina si cerca invece di capire che il diverso o il non cinese non è inferiore. Quindi, si, anche in Cina il razzismo esiste.
Di Jada Bai*
*Jada Bai è docente di lingua cinese e organizzatrice di eventi culturali. Nata in Cina, si trasferisce a Milano da piccolissima con la famiglia. Si diploma al liceo classico Giosuè Carducci e si laurea successivamente in Scienze della Mediazione Linguistica e Culturale presso l’Università degli Studi di Milano. Studia per un periodo anche presso la Fudan University di Shanghai con una borsa di studio. Si occupa di comunità cinese e condizione femminile e ne ha scritto per varie testate giornalistiche.