Il partenariato strategico è ora per Tajani «più importante della Via della Seta». Il ministro degli Esteri ha anche invitato la Cina a «usare la sua influenza» per favorire una «pace giusta» in Ucraina. E si sarebbe parlato anche di Africa
Un passo indietro, per farne due avanti. O un passo avanti, per farne due indietro. Sta tutta lì, nell’interpretazione che la Cina darà delle mosse dell’Italia, il bilancio della visita di Antonio Tajani a Pechino. Secondo il vicepremier e ministro degli Esteri, «è certamente positivo, con un rafforzamento delle relazioni nel contesto del partenariato strategico che deve rappresentare un’opportunità per i nostri imprenditori». Quel partenariato strategico che ora, per Tajani, è «più importante della Via della Seta». Un modo per provare a garantire a Pechino che la ormai quasi certa uscita dalla Belt and Road non è una scelta ideologica. E che, anzi, l’Italia vorrebbe rafforzare i rapporti bilaterali.
D’ALTRONDE, «l’export rappresenta il 40% del Pil, noi abbiamo il dovere di rinforzarlo», dice Tajani, che ha però ribadito che l’accordo firmato dal governo gialloverde nel 2019 «non ha prodotto i risultati sperati». Wang Yi, ministro degli Esteri cinese e capo della diplomazia del Partito comunista, la nuova Via della Seta con l’Italia «è stata ricca di risultati negli ultimi 5 anni, è stata una pagina piuttosto brillante con l’interscambio commerciale arrivato a 80 miliardi di dollari da 50 miliardi e l’export italiano verso la Cina aumentato del 30%». Con un richiamo poi alla sua versione nostalgica: «Cina e Italia sono paesi con antiche civiltà, che hanno aperto la strada agli scambi tra oriente e occidente», ha rievocato Wang. «Dovremmo ereditare questo spirito della Via della Seta, insistere per essere un ponte nel dialogo tra le civiltà orientali e occidentali e trascendere i conflitti di civiltà con la conoscenza reciproca», ha aggiunto.
DA CAPIRE se può funzionare fino in fondo il tentativo di deviare il focus dal memorandum sulla Belt and Road Initiative di Xi Jinping al vecchio accordo del 2004 tra Silvio Berlusconi e l’allora premier cinese Wen Jiabao. Ci sperano ardentemente le aziende italiane, che temono turbolenze ed eventuali ritorsioni. Domenica sera, incontrando la comunità d’affari italiana, Tajani ha dato delle rassicurazioni. Ribadendo che la decisione finale sulla Via della Seta arriverà dal parlamento. Un modo con cui il governo Meloni mira a dividere la responsabilità con tutto l’arco parlamentare, sperando di contenere la reazione di Pechino. Da parte cinese qualche segnale confortante è arrivato. Secondo esperti citati dal quotidiano nazionalista Global Times, il ritiro dalla Via della Seta potrebbe sì «rappresentare una grave battuta d’arresto per le relazioni Cina-Italia, a seconda dell’andamento delle discussioni tra le due parti, ma l’impatto non dovrebbe essere fondamentalmente dannoso per i legami bilaterali». A patto di dare sostanza alla cornice del partenariato strategico, come lasciato intuire da Wang, che ha spiegato come se ne debba «arricchire il contenuto», durante l’undicesima sessione del comitato governativo Italia-Cina.
TAJANI ha anche invitato la Cina a «usare la sua influenza» per favorire una «pace giusta» in Ucraina. E si sarebbe parlato anche di Africa.
Dopo aver gettato le basi diplomatiche, l’Italia proverà a passare sul piano concreto, nel tentativo di circoscrivere il malcontento cinese. Entro la fine dell’anno sono attese in Cina anche la ministra del Turismo Daniela Santanchè e quella alla Ricerca e Università Anna Maria Bernini. Il clou sarà però la visita di Giorgia Meloni, chiamata a un bilaterale risolutorio (più nella forma che nella sostanza) con Xi. Aspettando però a dargli il dispiacere della prima defezione dal suo progetto globale dopo il terzo forum sulla Belt and Road in programma a ottobre a Pechino, con la probabile presenza di Vladimir Putin. Dulcis in fundo, l’arrivo di Sergio Mattarella nel 2024.
LA PERSONALITÀ politica italiana più apprezzata in Cina, anche per quel concerto straordinario al Quirinale che mise una pezza al caso diplomatico creato dalla chiusura dei voli diretti operata dal governo Conte nelle prime fasi della pandemia. Ancora una volta, il presidente della Repubblica potrebbe dunque essere chiamato a farsi di nuovo alto garante dei rapporti tra Italia e Cina che paiono destinati a un passo indietro. Facendone due avanti? O forse il contrario.
[Pubblicato su il Manifesto]Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.