La bomba di Hiroshima ha segnato profondamente l’animo giapponese tanto che nel corso del tempo si è venuta a creare una particolare corrente letteraria denominata Gengaku bungaku (原爆文学), letteratura della bomba atomica. Questa non segue stilemi precisi, a parte la tematica.
Il 6 agosto 1945 è una data che ha cambiato le sorti della Seconda Guerra Mondiale e del mondo a venire: quella mattina, appena qualche minuto dopo le otto, venne sganciata Little boy, la prima bomba atomica ad essere impiegata in un contesto bellico, nei cieli di Hiroshima. Qualche giorno dopo, il 9 agosto, anche Nagasaki subirà lo stesso destino. L’atomica ha segnato profondamente l’animo giapponese tanto che nel corso del tempo si è venuta a creare una particolare corrente letteraria denominata Gengaku bungaku (原爆文学), letteratura della bomba atomica. Questa non segue stilemi precisi, a parte la tematica.
Al suo interno si suddivide sostanzialmente in due categorie cronologiche: la prima, la più significativa, è quella di cui fanno parte i sopravvissuti al disastro, con le loro testimonianze dirette e sofferte, scritte fra il 1945 e i primi anni ’50. In queste opere è da segnalare l’intervento censorio (volontario o meno) a causa dell’occupazione statunitense del Giappone; la seconda comprende scritti successivi a quel periodo, prevalentemente di autori sì contemporanei, i quali però non hanno vissuto in prima persona la tragedia, offrendo quindi una visione distanziata nel tempo e concentrata piuttosto sulla riflessione delle conseguenze che i bombardamenti hanno portato. Riguardo Hiroshima, i testi esperienziali di maggior rilievo sono Città di cadaveri (Ōta Yōko) e Diario di Hiroshima (Hachiya Michihiko).
Ōta Yōko è stata una scrittrice originaria di Hiroshima e, per quanto concerne la creazione di Città di cadaveri, nella prefazione dell’edizione del 1950, sottolinea l’urgenza di mettere su carta quanto visto e vissuto per timore di morire a seguito della malattia da bomba atomica. Scrivere diventa quindi un imperativo morale per lasciare ai posteri una traccia che, seppur estremamente soggettiva, resti ai posteri. Aggiunge inoltre che raccontare del bombardamento atomico “non è tema che si presti facilmente alla narrativa di fantasia”, esplicitando che quel che vi si trova all’interno dell’opera è frutto di una descrizione vivida e veritiera, pur ammettendo che “è problematico per la mia penna comunicare alle persone quell’indescrivibile stupore e terrore”.
Ōta Yōko, infatti, restituisce una visione ricca di particolari cruenti, specialmente riguardanti i corpi senza vita per le strade della città. Tuttavia afferma che “mi ero ormai abituata alla vista dei cadaveri. Tutti lo eravamo. […] Perfino i cadaveri ordinati dei bambini […] non suscitavano alcun malessere nelle persone che vi passavano accanto”. Una sorta di anestetizzazione al dolore, come se fosse normale. La scrittrice definisce, inoltre, l’apatia come uno dei principali sintomi della malattia della bomba atomica: la passività diventa uno dei segni di riconoscimento dei superstiti, mettendo a confronto le reazioni di angoscia costante nel timore di un bombardamento convenzionale rispetto alla totale mancanza di quest’ultima quel 6 agosto (e i giorni successivi). Un evento così devastante che solo il silenzio descrive.
In quest’opera viene dato spazio anche ad alcune considerazioni personali dell’autrice, come il ritenere tardivo l’intervento degli esperti dell’Università di Tōkyō, o la necessità di volenterosi commercianti di generi alimentari, imputando il tutto alla scarsità di velocità di pensiero e di senso pratico dei giapponesi. Colpiscono anche alcune parole dette da bambini riguardanti la guerra che Ōta riporta: “ Se fossimo tornati vincitori, saremmo stati felici all’inverosimile. Quando abbiamo scoperto di avere perso la guerra, ci è mancata la terra sotto i piedi”.
Di tutt’altro tenore è Diario di Hiroshima di Hachiya Michihiko. L’autore, medico presso la clinica Teishin, si concentra sui sintomi degli hibakusha e i primi tentativi di curarli. Particolare degno di nota è il totale stato di mutismo nei sopravvissuti intorno a lui quel giorno, che idealmente riprende l’apatia già descritta da Ōta Yōko in Città di cadaveri. Sono molte le pagine dedicate allo studio, attraverso i sintomi, degli effetti delle radiazioni, ed espone le sue conclusioni in un dettagliato articolo trascritto nel diario il 9 settembre 1945.
Accanto alla descrizione delle giornate dedicate alla cura dei pazienti, emergono anche riflessioni personali riguardo alla guerra, i militari giapponesi e l’occupazione americana seguita alla resa incondizionata: in particolare delinea i militari come gente gretta, dedita alla violenza gratuita e pronta a schiacciare ogni persona per capriccio, dal momento che la guerra si è conclusa con la sconfitta.
Constata inoltre la formazione di due fazioni all’interno dell’ospedale: la prima che accetta la resa; la seconda favorevole alle azioni di alcuni militari irriducibili, restii all’idea di arrendersi e che invitano alla resistenza quante più persone possibili.
Hachiya commenta amaramente che “pensavo con dolore a quelli che preferivano la morte alla resa”. Successivamente narra di come molti pazienti reagiscono in maniera scomposta quando, nel timore dell’occupazione straniera, fuggono dal nosocomio. Lo stesso dottore, pur non commettendo azioni così plateali, nutre le stesse paure e la problematica della lingua diventa per lui di vitale importanza in quanto unico modo per avere un contatto diretto: “eravamo in un regime d’occupazione e sapevamo benissimo che l’arcipelago giapponese era diventato un unico, grande campo di prigionia. Dovevamo trovare il modo di esprimere il nostro pensiero in inglese”.
Il diario, che copre un periodo di tempo che va dal 6 agosto fino al 30 settembre 1945, restituisce riflessioni profonde, immergendo il lettore in tutta la drammaticità della condizione degli hibakusha e quel che devono soffrire ma registra anche i pensieri di un uomo pienamente coinvolto nel contesto e gli eventi dell’epoca, che resta sbigottito da quanto successo pur continuando a compiere il suo dovere da medico.
Lo scrittore Ōe Kenzaburō non ha vissuto in prima persona i bombardamenti atomici, tuttavia il suo Note su Hiroshima è uno dei testi fondamentali all’interno della Gengaku bungaku. L’opera è una raccolta di saggi scritti dopo una serie di viaggi a Hiroshima negli anni ’60 e pubblicati inizialmente sulla rivista Sekai. Nella sua interezza è un libro di denuncia contro la proliferazione delle armi atomiche e la violenza in generale, ritraendo al contempo le persone di Hiroshima, siano essi vittime, dottori, associazioni, tutti eroici a loro modo. Si sofferma in particolar modo sulle difficoltà che un hibakusha deve affrontare nel Giappone contemporaneo.
Infatti i “sopravvissuti” devono sopportare molto spesso l’ostracizzazione dalla società, specialmente quelli “indiretti”: “per gli hibakusha che vivono lontano da Hiroshima è talvolta molto difficile, se non impossibile, ottenere lo speciale libretto sanitario che assicura alcuni vantaggi economici “; ” […] si trovano stretti in una morsa costituite da due realtà decisamente contrastanti: da una parte, il fatto che quasi ogni sintomo può essere in teoria attribuibile alla terribile esperienza vissuta nei giorni del bombardamento […]; dall’altra, il fatto che non è possibile beneficiare del sostegno dello Stato a meno che non si dimostri di avere sintomi evidenti di malattie che sono perlopiù mortali”.
Alcuni, al limite della sopportazione, scelgono la via del suicidio, come nel caso di una ragazza impiccatasi per aver scoperto di essere affetta da leucemia. A questo proposito Ōe Kenzaburō scrive: ” quando mi capita di venire a conoscenza di storie del genere, mi sento molto fortunato a non fare parte di una nazione cristiana. Provo un sollievo indescrivibile al pensiero che un dogmatico senso di colpa cristiano non abbia impedito a quell’infelice ragazza di suicidarsi. Nessuno di noi vivi può difatti biasimarla per il suo gesto estremo. […] Comunque sia, posso affermare in tutta sicurezza di non sentirmi assolutamente in diritto di dissuadere chicchessia dal commettere suicidio “.
Da qui, un’altra importante considerazione dello scrittore è il diritto degli hibakusha di mantenere il silenzio, proprio per evitare di essere considerati degli appestati. La raccolta è un invito a restare umani e far sì che eventi di tale portata non si ripetano più.
Un altro testo in riferimento alla bomba atomica di Hiroshima è La pioggia nera di Ibuse Masuji, dato alle stampe nel 1965, e quindi appartenente alla seconda tornata (così come Ōe) di autori della Gengaku bungaku. Differisce dalle altre opere sopracitate in quanto è un romanzo e, come tale, opera di finzione.
Finzione però che vuole restituire un quadro il più veritiero possibile, impiegando l’utilizzo di due livelli di narrazione: il primo è rappresentato dalla storia vera e propria, il secondo attraverso i diari dei personaggi che rappresentano il ricordo di quei terribili giorni.
Il romanzo è permeato da descrizioni del mondo rurale e naturale, caro a Ibuse, in contrapposizione alla pioggia nera, di natura artificiale poiché causata dal fallout radioattivo. La stessa nube venefica viene quasi incarnata, assumendo la forma di una medusa. Narra anch’esso dell’allontanamento degli hibakusha dalla società: infatti Yasuko, nipote del protagonista Shigeru, cerca quasi disperatamente un marito ma viene sempre allontanata perché su di lei cade il sospetto che sia malata per via delle radiazioni (cosa che poi si rivelerà veritiera). Shigeru invece è conscio della sua malattia e per cercare di difendere la nipote redige un diario sui fatti di Hiroshima dimostrando che Yasuko si trovava a lavorare in una fabbrica a Furuichi. Seguiranno poi le sue memorie, intrecciate alla storia principale.
Ibuse grazie a questo racconto ci mostra come l’atomica, a distanza di anni, sia ancora attuale, in quanto i suoi effetti si ripercuotono dopo tanto tempo e non è un evento durato un solo giorno ma continua ad affliggere la vita di chi è sopravvissuto, o di chi, purtroppo, si trovava abbastanza nei pressi per subire le radiazioni.
Tutte queste opere, in ogni caso, costituiscono un monito e uno stimolo a far sì che tutto questo non si ripeta più: un appello alle nuove generazioni per continuare a insistere sulla non proliferazione di armi nucleari.
Di Marco Cerutti