Solidarietà e resistenza: sono passati dieci anni dallo sciopero che nel 2013 ha visto il coinvolgimento di circa 500 lavoratori portuali del Kwai Chung Containers Terminals di Hong Kong. Un momento rilevante per il movimento sindacale non solo della città, ma del movimento operaio internazionale: i manifestanti hanno resistito 40 giorni, supportati da attivisti e cittadini. Gig-ology è una rubrica sul mondo del lavoro asiatico.
Il 20 aprile di dieci anni fa cinquecento portuali di Hong Kong erano nel pieno di uno degli scioperi che ha segnato “un capitolo importante del movimento sindacale della città”, come ha scritto il mese scorso Christopher Siu-tat Mung, direttore esecutivo della ong Hong Kong Labour Rights Monitor. Iniziata a fine marzo del 2013, la mobilitazione non si è configurata come un “incidente collettivo” come tanti altri, per usare una espressione che di norma si usa quando si parla delle proteste di qualsivoglia genere nella Repubblica popolare cinese. Si è trattato della prima di questo genere a coinvolgere i lavoratori del settore, i veri ingranaggi della globalizzazione. E i quaranta giorni di durata l’hanno resa il più lungo sciopero della città dalle rivolte della fine degli anni Sessanta, in cui per mesi i manifestanti di sinistra hanno riversato la loro rabbia contro il governo britannico coloniale.
L’inizio non era promettente, vista una lotta chiaramente impari: da una parte, centinaia di gruisti e stivatori (quelli addetti al carico delle merci nei container) invischiati nel lavoro povero, costretti a turni che arrivavano con facilità alle 24 ore filate e a una paga inferiore a quella che si percepiva per la stessa mansione a fine anni Novanta (i dati forniti dalla ong parlano di circa 1300 HKD per turni lunghi a fronte dei 1480 HKD per le stesse ore di lavoro nel 1997). Dall’altra, Li Ka-shing, magnate all’epoca 85 enne conosciuto per essere l’uomo più ricco d’Asia. Il noto tycoon ha fatto fortuna con imprese edili e portuali, e il suo acume per gli affari gli ha permesso di fiutare le potenzialità di Zoom proprio nel 2013, prima ancora che mostrasse i suoi prodigi in tempi di pandemia. Nel 2020 un terzo del suo patrimonio netto consiste nei profitti provenienti dalla società di chat online e videocall. A inizio anni Demiladieci la Hutchison Whampoa di sua proprietà gestisce tramite la Hong Kong International Terminal (HIT) gran parte dei terminal più trafficati del continente asiatico.
Una storia, quella della lavoratori del Kwai Chung Containers Terminals (porto sulla parte occidentale della penisola di Kowloon), che racconta di una sistema profondamente radicato di monopolio aziendale e della esternalizzazione dei servizi: società di proprietà di altre società e agenzie del lavoro che gestiscono la forza lavoro, offrendola a contratto, al bisogno. Alcuni lavoratori hanno tentato azioni collettive nei mesi e negli anni precedenti, ma i padroni non accolgono di buon grado le rimostranze e gli operai che alzavano la voce rischiano ritorsioni e licenziamento.
Sono stati forse gli insuccessi precedenti a spingere i lavoratori a tentare l’ennesimo sciopero, forti di esperienze passate. O forse la ovvia necessità di migliorare condizioni indegne. Un aiuto importante per “ribaltare le sorti della lotta asimmetrica”, ha scritto Mung, è stata l’ampia partecipazione della società civile e il supporto dei volontari (molti dei quali studenti), che hanno aiutato a sensibilizzare l’opinione pubblica.
Marce e picchetti
In occasione del decimo anniversario dallo sciopero, Hong Kong Labour Rights Monitor ha dedicato una mostra fotografica online che illustra le fasi della mobilitazione. Si inizia il 28 marzo, quando centinaia di portuali lanciano lo sciopero in risposta al rifiuto da parte di Hongkong International Terminals (HIT) di ascoltare le loro richieste. Chiedono un aumento salariale del 20%, il miglioramento delle condizioni lavorative (le testimonianze che si raccolgono parlano di turni che nei picchi stagionali possono protrarsi anche fino alle 72 ore, come anche di gruisti costretti a fare bisogni dentro alla gru), e il riconoscimento dell’esistenza e dalla partecipazione nelle trattative del un sindacato di categoria.
Gli operai si accampano la mattina del 28 davanti al Gate 6. Restano per un paio giorni, marciando all’interno del perimetro del terminal. Nelle ore successive la HIT continua a negare qualsiasi possibilità di negoziato, addossando alle società appaltatrici le mancanze nella gestione della forza lavoro. Poi passa alle contromisure ed emette una ordinanza restrittiva per vietare ai rappresentanti e agli scioperanti di occupare il sito. I lavoratori piantano quindi le tende sul ciglio della strada di fronte al sito del porto, con il supporto morale e concreto di altri operai giunti a sostenere la protesta. Per settimane vivono e discutono nel neonato villaggio portuale. Attivisti e cittadini comuni portano loro beni di ogni genere, e il fondo per lo sciopero raccoglie in poche settimane quasi 9 milioni di dollari di Hong Kong.
La timeline offerta dal sito della ong descrive il sito come un luogo cardine dove vengono prese molte decisioni importanti. Come quella di organizzare una marcia, il primo aprile, che convogli i manifestanti oltre la penisola di Kowloon, al di là di Victoria Halbour, fino all’area insulare di Hong Kong Island. Che li faccia marciare davanti al quartier generale di Hutchinson Whampoa, nel quartiere affaristico Central, per poi raggiungere la Government House, l’edificio bianco in stile coloniale dove risiede il capo dell’esecutivo di Hong Kong.
Qualche giorno dopo, il 4 aprile, ai rappresentanti dei portuali è concesso un tavolo di negoziazione ma la società non si presenta. Il giorno successivo si marcia ancora. Il 7 aprile si organizza una marcia di solidarietà da Victoria Park alla sede del governo: partecipano 4mila persone. I lavoratori e i manifestanti distribuiscono rose rosse e delle fasce dello stesso colore con su scritto “unione popolare” (人大團結 renda tuanjie), e “sciopero” (罷工 bagong).
Dalle foto delle manifestazioni emerge un altro elemento che può aiutare a comprendere l’importanza delle azioni dei portuali di Hong Kong: scegliere di scavalcare la lunga fila di intermediari e mirare direttamente al lider maximo, Li. Gli striscioni intimano al miliardario di “restituire i soldi ai lavoratori”.
Lo sciopero continua. La copertura mediatica è diffusa e partecipe, anche grazie al supporto di rappresentanza della Confederazione sindacale di Hong Kong (CTU). Si sceglie di trasferire parte del villaggio portuale proprio di fronte al quartier generale di Hutchison Whampoa Company, malgrado poco dopo faccia capolino una nuova ingiunzione del tribunale che vieta l’accampamento. La mobilitazione non porta a risultati concreti, ma la vicinanza si fa sentire, sia dalla popolazione locale che da sindacati internazionale che mandano messaggi di solidarietà: da Taiwan, Giappone, Corea del Sud, Africa e Sud America. Volano a Hong Kong rappresentanze dello International Longshore and Warehouse Union, sindacato dei lavoratori portuali della costa occidentale degli Stati Uniti, della Maritime Union of Australia e della Netherlands Trade Union Confederation (FNV), da Rotterdam.
Arriva l’accordo. In un incontro con la dirigenza di inizio maggio, la società nega la richiesta di aumento salariale del 20% proposta per compensare l’immobilità salariale prolungatasi per più di un decennio. Offre invece un incremento del 9.8% in busta paga, promettendo anche un generale miglioramento delle condizioni lavorative. Lo sciopero si conclude il 6 maggio, con la maggioranza dei manifestanti d’accordo ad accettare il patto. L’anno successivo la HIT accorderà un altro aumento del 10%. Ma un cartello appeso nel villaggio portuale a poche ore dallo smantellamento chiarisce che “questo è solo il primo sciopero delle migliaia che seguiranno”.
Li ha perso la faccia?
In un articolo del 2013 sulla vicenda, gli scioperanti spiegavano al giornalista Gabriele Battaglia le motivazioni dietro alla scelta di mirare direttamente a Li Ka-shing: “Se perde la faccia sarà costretto a trovare qualche rimedio lui”. Forse sarebbe esagerato dire che la reputazione di Li sia andata in frantumi, ma di certo la grande attenzione pubblica raggiunta dai portuali è servita a scalfire i suoi affari legati ai porti container. L’anno successivo la Hutchison Ports Holdings Trust ha annunciato una joint venture con Cosco Ports, il braccio portuale del gruppo marittimo cinese: la società di Li ha venduto una partecipazione del 60% in uno dei suoi terminal di Hong Kong.
In generale, dopo lo sciopero il magnate ha tentato di diversificare gli affari, per esempio puntando al settore edile e al biotecnologico. È di qualche settimana fa la notizia che la CK Hutchison Holdings (multinazionale nata nel 2015 dalla fusione di due sue società, Hutchison Whampoa e Cheung Kong Holdings Limited) intende trasformare un cantiere portuale in una enorme enclave abitativa. La proposta è stata presentata al Consiglio di pianificazione urbanistica di Hong Kong, e punta a offrire una soluzione alla annosa questione della penuria di case con un progetto di oltre 10 mila appartamenti e 4.700 unità abitative pubbliche. Si tratterebbe del secondo più grande sito residenziale di questo tipo. L’idea è di replicare il progetto di Whampoa Garden: il primo complesso residenziale per numero di appartamenti, costruito sempre da una società di Li e sempre su un ex sito portuale, nell’area di Hung Hom, a sud-est di Kowloon.
Il sistema monopolistico nel settore portuale resta ancora un grosso problema. Nel 2019 Hutchison, Cosco e altre multinazionali hanno comunicato l’intenzione di unirsi nella Hong Kong Seaport Alliance, che si è di fatto formata nell’estate del 2020. Per convincere le forze politiche l’alleanza ha rivendicato la capacità di ridurre i costi e migliorare l’efficienza in “un ambiente commerciale in rapida evoluzione”. L’enorme alleanza può gestire gli ormeggi che movimentano il 95% di tutto il volume di container. Tra i maggiori vantaggi, hanno sostenuto le multinazionali coinvolte, quello di ospitare le grandi navi. La questione della stazza delle navi container si lega al grado di competitività del porto di Hong Kong, che fino a poco fa ha potuto ospitare navi più piccole rispetto ai porti di Shanghai e Singapore, con costi maggiori del 25% per gli operatori. Nel 2019 il porto della città si assestava al quinto tra i più trafficati al mondo, con un volume in calo dal 2012. Per capire: nel 2017 Shanghai ha movimentato 40 milioni di container, il doppio rispetto a Hong Kong. Nel 2020, invece, la Seaport Alliance ha dato il benvenuto alla nave porta-cointainer più grande al mondo, la HMM GDANSK.
Sviluppi e difficoltà del movimento operaio di Hong Kong
A fianco alle complicazioni in tema di containerizzazione e società di investimento, il movimento operaio di Hong Kong ha sofferto negli anni successivi fino quasi a estinguersi. La libertà di stampa e di parola è stata intaccata in particolar modo all’indomani dell’introduzione della controversa Legge sulla sicurezza nazionale, a giugno 2020. L’ondata repressiva ha portato all’arresto di attivisti e sindacalisti. Tra questi, Lee Cheuk-yan, ex leader della Confederazione sindacale di Hong Kong (CTU), che è finito in prigione per quasi due anni per aver partecipato alle proteste del 2020 e del 2021. Il sindacato si è poi sciolto.
Lo sciopero dei portuali di Hong Kong, tuttavia, è finito per diventare un caso studio per il movimento operaio internazionale. Ha influenzato anche azioni collettive analoghe nella Cina continentale. A settembre e ottobre 2013 i lavoratori dei porti di Yantian e Shekou, a Shenzhen, hanno organizzato mobilitazioni per motivazioni molto simili a quelle dei compagni hongkongonesi. Entrambi gli scioperi si sono risolti in breve tempo con il pronto intervento del governo locale, che ha promesso minimi aumenti salariali e sussidi extra.
Ma gli anni successivi, a Hong Kong, non si sono rilevati così promettenti come alcuni osservatori si aspettavano. In un lungo saggio per Made in China Journal lo studioso Kevin Lin ha descritto il movimento operaio della città come “un enigma”. Prima della repressione degli ultimi anni, nella ex colonia britannica l’interferenza politica nei sindacati indipendenti è stata minima. L’azione sindacale era consentita, non ostracizzata. Ma “nonostante queste condizioni politicamente favorevoli, il movimento sindacale indipendente di Hong Kong [..] non è riuscito a esercitare un potere economico o politico significativo”. Un fatto che aggiunge non essere di per sé degno di nota, ha scritto Lin, “visto il declino a lungo termine del sindacalismo in gran parte del mondo sotto il neoliberismo”. Ma va segnalata soprattutto se comparata con il dinamismo che si è registrato nella Cina continentale.
Dopo una ondata di sindacalizzazione iniziata nel 2019 e proseguita nella prima parte del 2020,le unioni sindacali sono diventati bersaglio di critiche, pressioni e persecuzioni aperte. Il futuro è incerto, affatto radioso. Ma riflettere sulle azioni dei portuali aiuta a comprendere come solidarietà e resistenza sono possibili anche in un ambiente impari: nel 2021 gli addetti della consegna di Foodpanda, società che domina il mercato della città assieme a Deliveroo e UberEats, si sono mobilitati in un’azione collettiva contro la multinazionale del delivery. Se la società ha rifiutato le richieste dei lavoratori, le rimostranze dei rider dimostrano le forme variabili e sempre in aggiornamento che può assumere il movimento operaio.portuali portuali
Marchigiana, si è laureata con lode a “l’Orientale” di Napoli con una tesi di storia contemporanea sul caso Jasic. Ha collaborato con Il Manifesto, Valigia Blu e altre testate occupandosi di gig economy, mobilitazione dal basso e attivismo politico. Per China Files cura la rubrica “Gig-ology”, che racconta della precarizzazione del lavoro nel contesto asiatico.