Il 4 maggio 1919, oltre tremila studenti cinesi confluirono in piazza Tian’anmen per protestare contro la decisione annunciata a Versailles di trasferire al Giappone tutti i diritti e i territori acquisiti dalla Germania nello Shandong, polverizzando le aspettative riposte dagli intellettuali cinesi in una possibile modifica delle condizioni più umilianti imposte dalle potenze straniere nell’800 con i trattati ineguali. La cobelligeranza cinese, decretata dall’intervenuto del generale Duan Qirui e 140mila soldati cinesi nel conflitto mondiale a fianco dell’Intesa, fu così ripagata con l’estremo affronto: la provincia che aveva dato i natali al filosofo Confucio passava nelle mani dell’invasore giapponese.
Promossa da 13 atenei della capitale, la manifestazione studentesca si propagò nelle maggiori città del paese, finendo per coinvolgere anche la borghesia urbana e gli operai impiegati nelle fabbriche straniere e cinesi.
Erano anni di profondo smarrimento per le nuove generazioni di studenti e intellettuali, molti dei quali con esperienze di studi all’estero e pertanto più permeabili all’assimilazione di nuovi valori. L’occupazione straniera seguita alle Guerre dell’Oppio e il rovesciamento della dinastia Qing nel 1911 segnarono la fine di secoli di dominazione imperiale e l’inizio della frammentazione territoriale del Regno di Mezzo in sacche di potere sotto la guida dei signori della guerra, cricche militari spesso in combutta con le potenze imperialiste e in costante guerra tra loro. Proprio l’assenza di un potere politico centralizzato permise la nascita di un pluralismo ideologico senza eguali, che gli esperti ritengono unanimemente abbia sancito l’inizio della storia e della letteratura contemporanea cinese.
Con centro nevralgico nell’Università di Pechino (Beida), il Movimento di nuova cultura (1915-1921) si sviluppò lungo un doppio binario culturale e politico attraverso la mobilitazione di intellettuali vissuti a cavallo tra ‘800 e ‘900, riuniti intorno alla rivista d’avanguardia Xin Qingnian (Gioventù Nuova). La definizione di nuove idee e valori fu accompagnata da un dibattito parallelo sulle modalità d’attuazione nella realtà locale in un confronto a tutto campo che vide schierati, tra gli altri, pragmatisti, liberali, metafisici, anarchici e darwinisti. Quasi tutti convinti che la tradizione confuciana fosse la vera responsabile dell’arretratezza cinese e del conseguente sorpasso occidentale.
Attingendo ai tentativi riformisti di fine ‘800, il movimento del 4 maggio se ne discostò radicalmente per la violenta opposizione alla tradizione gerontocratica confuciana, di cui l’istituto imperiale era considerata emanazione, sancendo il passaggio da una concezione di modelli ciclici di cambiamento in linea di continuità con il passato a una concezione occidentale di progresso su basi scientifiche ed evoluzionistiche. A farne le spese fu primo tra tutti il principio cardine della “pietà filiale” – nelle sue applicazioni politiche e sociali – a cui i promotori della riforma culturale risposero dando inedita centralità alle categorie più penalizzate dalla struttura gerarchica e patriarcale confuciana: i giovani e le donne.
Considerata un ostacolo all’alfabetizzazione e un freno al progresso del paese, la lingua cinese scritta fu ugualmente attaccata nell’ambito di una riforma letteraria sfociata nella diffusione di nuove riviste non più redatte in stile letterario (wenyan) bensì in lingua volgare (baihua). Primo passo verso una modificazione della lingua confluita trent’anni più tardi nell’introduzione dei caratteri semplificati. In questo interludio di disgregazione territoriale, l’accezione culturalistica dell’identità politica intesa come condivisione di una scrittura comune, tradizioni, principi etici e norme rituali, per la prima volta cedette terreno al concetto di “nazionalità” come emanazione dell’etnia maggioritaria han. Si cominciò a parlare di “nazionalismo” non solo in risposta all’inettitudine dell’ultima dinastia di etnia mancese, ma anche in reazione all’ingerenza nipponica, suggellata prima con l’umiliante firma del trattato di Shimonoseki (1895) – che riconobbe l’indipendenza della Corea e la cessione al Sol Levante della penisola del Liaoning, di Taiwan e delle isole Pescadores – poi con le 21 richieste del 7 maggio 1915 che – se accettate – avrebbero gettato la Cina in uno stato di completo vassallaggio, politico, economico, diplomatico, nei confronti del Giappone.
Ma la nuova missione divulgativa della lingua scritta confermava anche la conversione dell’intellettuale all’attivismo politico in segno di rottura con il passato imperiale, quando l’istituzione del mandarinato risultava declinazione della macchina amministrativa stessa. Questo prima che nel 1905 l’abolizione degli esami imperiali distruggesse la struttura per il reclutamento delle élite politiche e sociali, avviando un moderno sistema scolastico fondato sull’integrazione tra sapere occidentale e tradizione cinese.
Le basi ideologiche delle leadership future sono tutte qui.
E’ infatti proprio in questi anni di sperimentazione culturale che il marxismo – reduce dal successo della rivoluzione russa – fece breccia tra l’intellighenzia cinese, fornendo una spiegazione “scientifica” all’arretratezza del paese e alle umiliazioni subite nel suo ruolo di subordinazione e dipendenza all’interno del sistema capitalistico e imperialistico. Il Partito comunista cinese vide la luce nel luglio 1921, a Shanghai, per opera del fondatore di Gioventù Nuova, Chen Duxiu, e del direttore della biblioteca della Beida, Li Dazhao. Al tempo, reduce dagli studi classici, Mao Zedong non era che uno dei tanti giovani simpatizzanti. Ma l’esperienza del 4 maggio sarebbe rimasta centrale nella sua formazione politica. In piena resistenza antigiapponese, nel 1939 il presidente in pectore definirà i moti studenteschi l’inizio di “un nuovo stadio nella rivoluzione democratica borghese cinese contro l’imperialismo e il feudalesimo”: “Nel movimento rivoluzionario democratico cinese, sono stati gli intellettuali i primi a risvegliarsi. Ma gli intellettuali non realizzeranno niente se non riusciranno a integrarsi con gli operai e i contadini.”
[Pubblicato su il manifesto]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.