Considerate le ferree restrizioni sanitarie del triennio precedente, il 2023 è stato contraddistinto da un parziale miglioramento per i corrispondenti stranieri in Cina. Ma la situazione resta nel complesso tutt’altro che facile per i reporter stranieri e per i loro collaboratori cinesi, sorvegliati e sottoposti a pressioni di vario genere.
“Qualunque sia la strategia adottata, il sistema di sorveglianza e sicurezza cinese si adatta e colma il divario. Qualunque sia la strategia utilizzata, lo spazio per i reporter diventa sempre più marginale“. A parlare è un giornalista europeo, uno degli oltre 100 professionisti interpellati dal Foreign Correspondents’ Club of China (FCCC), l’associazione di categoria con base a Pechino che a inizio aprile ha pubblicato il suo ultimo rapporto: “Masks Off, Barriers Remain”, un sondaggio teso principalmente ad appurare le condizioni lavorative per i giornalisti stranieri dopo la riapertura dal Covid-19.
Considerate le ferree restrizioni sanitarie del triennio precedente, il 2023 è stato contraddistinto da un parziale miglioramento. Ma la situazione resta nel complesso tutt’altro che facile per i reporter stranieri e per i loro collaboratori cinesi, sorvegliati e sottoposti a pressioni di vario genere. I numeri raccolti dal FCCC rispecchiano il generale pessimismo: l’81% degli intervistati ha espresso un parere positivo, soprattutto per quanto riguarda la “mobilità” fortemente limitata nel periodo pandemico. Quasi tutti i report consultati (99%) tuttavia hanno affermato che, anche una volta sospese le restrizioni contro il virus, le condizioni in Cina raramente o mai soddisfano gli standard del giornalismo internazionale. Nessuno ritiene che oggi l’ambiente di lavoro sia meglio degli anni pre-Covid. Solo il 13% ha notato un ritorno ai livelli pre-pandemici. Come spiega David Rennie, corrispondente dell’Economist, “ora la situazione è molto più casuale. È più difficile prevedere quando verrai seguito o controllato” dalle autorità.
A questo proposito, sono sempre di più i reporter ad avvertire l’ingerenza del governo. Stando all’indagine, lo scorso anno il 54% dei rispondenti è stato ostacolato almeno una volta dalla polizia o da altri funzionari durante l’esercizio della professione, rispetto al 56% del 2022. Il 45% ha invece sperimentato l’ostruzionismo di “sconosciuti”; nel 2022 a dire lo stesso era stato solo il 36%. Come sottolinea il FCCC, le testimonianze sembrano comprovare la sistematica violazione dell’articolo 17 dei “Regolamenti della Repubblica popolare cinese sulla copertura delle notizie da parte degli uffici permanenti dei media stranieri e dei giornalisti stranieri”, secondo cui un giornalista straniero è libero di intervistare organizzazioni o individui in Cina purché abbia ottenuto “il loro previo consenso”.
Le difficoltà maggiori sono state segnalate nelle aree geografiche considerate “politicamente sensibili”, Xinjiang in primis: l’85% dei giornalisti che nel 2023 si è recato nella regione autonoma uigura ha riscontrato un controllo statale sopra la norma. “È stato particolarmente spiacevole a Hotan”, nel sud dello Xinjiang, racconta uno degli intervistati che ha detto di essere stato seguito da “una mezza dozzina di agenti in borghese in macchina o a piedi”. Stessa situazione a Korla, più a nord, dove “ad un certo punto avevamo dietro sei macchine”. Ma dal rapporto emerge come chiaramente nel vocabolario di Pechino il termine “sensibile” abbia assunto una definizione sempre più ampia: un numero crescente di giornalisti ha riscontrato problemi nelle province confinanti con la Russia (79%) e con i paesi del Sud-est asiatico (43%), così come nelle regioni abitate dalle minoranze etniche, come la Mongolia Interna (68%). Molti i rispondenti che in queste zone periferiche hanno dovuto interrompere le riprese o cancellare filmati.
Mentre per chi racconta da anni la Cina le difficoltà descritte nel rapporto non giungono nuove, il Covid e il contact tracing sembrano aver fornito il pretesto per l’imposizione di una sorveglianza ancora più massiccia. Soprattutto grazie all’impiego di strumenti tecnologici sempre più all’avanguardia. Quasi tutti gli intervistati hanno affermato di ritenere di essere controllati attraverso app di comunicazione o altri dispositivi. La maggioranza dei rispondenti ha motivo di credere che le autorità abbiano compromesso il loro account WeChat (81%), il telefono (72%) e/o inserito microspie di registrazione audio nel proprio ufficio o nella propria abitazione casa (55%). Quattro dei corrispondenti sottoposti a interrogatori hanno affermato che i funzionari erano a conoscenza di informazioni ottenibili solo accedendo agli account o ai dispositivi privati. C’è chi è stato persino monitorato con droni: gli aeromobili a pilotaggio remoto si stanno dimostrando molto utili nel caso le condizioni meteo o ambientali non permettano l’uso dei più comuni mezzi di trasporto.
Non è solo una questione di sorveglianza o di interferenze. Molestie o addirittura violenze sono state denunciate da ben l’81% dei reporter impegnati nella realizzazione di reportage sul campo, mentre aumentano le pressioni anche nei confronti delle fonti consultate e dei collaboratori locali: il 49% degli intervistati ha riscontrato pressioni, molestie o intimidazioni ai danni dei colleghi cinesi, rispetto al 45% del 2022 e al 40% del 2021.
Il rilascio dei visti giornalistici resta uno dei problemi più limitanti per i giornalisti stranieri. Circa un terzo dei rispondenti ha affermato che le proprie redazioni sono ancora a corto di personale a causa delle difficoltà incontrate nel rinnovo dei permessi o nell’emissione di nuovi. Dopo l’inizio della pandemia il governo cinese ha rilasciato perlopiù visti a breve termine. Complici le tensioni geopolitiche. Secondo l’indagine, nel 2023, solo un organo di stampa statunitense è stato in grado di ottenere l’accreditamento, mentre da quattro anni i media canadesi non hanno più nessun corrispondente in Cina.
È un quadro fosco, quello tratteggiato dal FCCC, che conferma quanto segnalato da altre organizzazioni del settore. Secondo Press Freedom Index di Reporter Senza Frontiere (RSF), nel 2023 la Repubblica popolare si è classificata al 179° posto, il penultimo su una scala da 1 a 180. In caduta libera alla 140° posizione troviamo Hong Kong, sempre più “cinese” malgrado l’autonomia concessale dopo il ritorno alla mainland sotto il motto “un paese due sistemi”. Su queste stesse colonne avevamo già spiegato come il rapido deterioramento della libertà di espressione abbia coinciso con l’introduzione della controversa legge sulla sicurezza nazionale e la conseguente chiusura di diverse testate liberali. Il 10 aprile Aleksandra Bielakowska, Advocacy Officer di RSF, è stata deportata al suo arrivo nella città, dove si era recata per monitorare il processo a carico di Jimmy Lai. Il fondatore del giornale pro-democrazia Apple Daily, incriminato ai sensi della legge, rischia il carcere a vita per diversi capi d’accusa, tra cui “collusione con forze straniere”. Secondo l’organizzazione francese, il caso di Bielakowska – definito “senza precedenti per RSF” – “segna un nuovo declino” per l’ex colonia britannica.
In tutto, per l’ong parigina, al momento sono almeno 119 i giornalisti e i difensori della libertà di stampa detenuti in Cina.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Gariwo]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.