DiDi Global Inc., gigante cinese del ride-hailing con sede a Pechino, ha annunciato l’istituzione del suo primo sindacato aziendale. Lo ha riportato nei giorni scorsi Reuters, aggiungendo che il mese scorso la società avrebbe informato i suoi dipendenti in un forum interno. E anche il colosso dell’e-commerce JD.com ha dichiarato l’imminente creazione del proprio ramo sindacale, allo scopo di migliorare la pianificazione e il coordinamento.
Nelle ultime ore, inoltre, i lavoratori di Meituan e Alibaba – il primo un colosso del food delivery e il secondo il re indiscusso dell’e-commerce cinese – avrebbero avanzato richieste simili nelle chat per il personale – spingendo le rispettive amministrazioni ad aprire discussioni sulla fattibilità della creazione di organizzazioni sindacali interne. Si tratta di un passo significativo per un settore, quello tecnologico, interessato da un gran numero di proteste negli ultimi anni, sia da parte di lavoratori a basso reddito che dei cosiddetti «colletti bianchi». Di sicuro è un segnale positivo per Pechino, impegnato a frenare il lavoro eccessivo e a spingere le multinazionali del paese a distribuire la ricchezza accumulata in nome dell’obiettivo di «prosperità comune».
Ma non è detto che la nascita di sindacati d’impresa comporti maggiori tutele per i lavoratori. Come spiega a il manifesto Eli Friedman, ricercatore alla ILR School (Industrial and Labor Relations) della Cornell University, i funzionari «sono tenuti a mettere gli interessi della nazione davanti a quelli dei loro membri», sotto le direttive della Federazione nazionale del sindacato cinese (All-China Federation of Trade Unions, Acftu).
Nata nel 1925 in un periodo di fermento operaio e poi rifondata nel 1948 al termine della guerra civile, la Federazione è un’organizzazione leninista che funziona come una cinghia di trasmissione, impegnata perlopiù a garantire relazioni di lavoro armoniose e stabilità economica. La legge del 1992, poi emendata nel 2001, prevede che «il finanziamento del sindacato d’impresa non derivi dalle quote di adesione, ma da una tassa del 2% sui salari pagata dall’azienda». «È abbastanza comune», continua Friedman, «che il presidente scelto provenga dal dipartimento delle risorse umane della stessa. Spesso i funzionari si limitano a comunicare gli interessi del partito, organizzano eventi o distribuiscono doni durante le festività».
«Ci sono stati casi», precisa Aidan Chau, ricercatore della ong China Labour Bulletin (Clb), «in cui i sindacati hanno accettato di fornire assistenza legale in seguito a richieste esplicite da parte di singoli lavoratori». Ma un lungo rapporto emesso a dicembre del 2019 proprio da Clb evidenzia come i funzionari continuino a concentrarsi su attività non fondamentali per la tutela dei diritti dei lavoratori e si impegnino raramente in contrattazioni collettive.
Consapevole della mancanza di credibilità della Federazione, nel 2013 lo stesso Xi Jinping aveva invitato pubblicamente i suoi funzionari a «fare meglio il proprio lavoro», lanciando – due anni dopo – una riforma sindacale per far fronte all’eccessiva burocratizzazione e favorire la coscienza politica e la «legittimità popolare».
Nel 2018, l’Actfu si è mostrata attenta ai risvolti del mercato del lavoro, aprendo a una massiccia campagna di reclutamento dei lavoratori della gig economy – quelle occupazioni flessibili che ad oggi interessano un quarto della forza lavoro in Cina, circa 200 milioni di persone. Tuttavia, la loro particolare inquadratura contrattuale li pone «al di fuori della giurisdizione formale del sindacato». «Per loro risulterà molto più difficile essere coinvolti», continua Chau, riferendosi a gran parte della forza lavoro di Didi. «JD.com dispone di un proprio servizio di logistica che si serve di driver con contratto da lavoratore subordinato, mentre la maggior parte degli autisti del gigante dei taxi figurano come “collaboratori” della società».
Le prospettive non sono radiose, vista anche la sistematica repressione di qualsiasi forma di azione collettiva che nasce e si sviluppa al di fuori del controllo diretto di Pechino. Oltre al caso di arresto di qualche mese fa di un rider attivista che aveva fondato una sorta di «Alleanza dei fattorini», lo dimostra in queste ore quanto successo a Fang Ran, dottorando dell’Università di Hong Kong impegnato in ricerche sui movimento sindacali cinesi. Il 26 agosto è stato arrestato dagli agenti del Ministero della sicurezza di Stato con l’accusa di «sovversione del potere statale». Si tratta di situazioni che dimostrano, conclude Friedman, quanto «gesti che sono esattamente in linea con la “prosperità comune” vengono visti come una minaccia al potere del partito, se provenienti dal basso».