In primis quelle legate all’importanza di muoversi in Cina, forti di una conoscenza approfondita del contesto culturale in cui ci si opera. Constatazione questa, che va di pari passo con la necessità per le aziende di venire assistiti da esperti che, oltre a conoscere la lingua, siano in grado di evidenziare possibili passi falsi culturali e modulare messaggi comprensibili ed efficaci. Un insieme di competenze, queste, patrimonio di quella nebulosa categoria costituita dai sinologi.
Se ci teniamo alla larga dalla definizione più rigida che relega il sinologo al solo ambito accademico, e ne allarghiamo le maglie, possono ambire al titolo, i laureati in lingue orientali con specializzazione in Cinese, chi ha frequentato facoltà come comunicazione ad indirizzo interculturale o relazioni Internazionali e che ha scelto il cinese come prima lingua e anche gli impavidi, che il cinese lo ha imparato con enormi sforzi parallelamente ai propri studi.
Uno degli epifenomeni della faccenda D&G è stato proprio la levata di scudi che da più parti (esperti, imprenditori, uomini di impresa e sinologi stessi) si è levata circa la necessità per le aziende di affidarsi maggiormente a profili sinologici per evitare il ripetersi di disastri del genere.
Abbiamo quindi colto l’occasione per interrogare alcuni sinologi che vivono in Cina per capire, dalla loro storia ed esperienze, quali opportunità lavorative esistano ancora nel paese per profili del genere e come siano cambiate le cose rispetto al più recente passato.
Angiola Rucci si è laureata in Lingue Orientali alla Sapienza di Roma, e in Cina ci è arrivata con una borsa di studio sull’arte contemporanea. Passata poi al mondo del food, ha acquisito skills in ambito comunicazione e marketing. Ora vive a Shanghai e lavora per una società di eventi italiana, e ha a che fare con clienti cinesi ed italiani.
Andra Taba ha un percorso analogo, dopo la laurea in cinese parte per la Cina e trova la sua dimensione nel modo del trading per poi passare alla manifattura. Oggi è responsabile della produzione per un’azienda italiana, sempre a Shanghai.
Entrambe conoscono la Cina molto bene, l’hanno girata in lungo e in largo e in questi anni si sono fatte le loro idee.
“Quando siamo arrivate,” racconta Andra, “essere stranieri e avere una base di cinese ti poneva subito in una posizione privilegiata. Le cose sono cambiate quando i cinesi hanno iniziato a rientrare dall’estero, forti di un bagaglio di conoscenze ed esperienze, e noi stranieri siamo divenuti sostituibili”.
Fino a qualche anno fa la conoscenza della lingua era necessaria per trasferirsi in Cina, e le competenze si acquisivano in un secondo momento, sul campo, lavorando. “Ora le cose sono più complicate, ad esempio per una figura professionale come la mia,” commenta Angiola, ”che ne sono centinaia cinesi con una buona conoscenza dell’inglese e ovviamente ottima dello loro madre lingua”.
Certamente masticare un po’ di cinese è un vantaggio nell’immediato “ma non può più precludere da altre skills anche per i neolaureati”. La Cina era un terreno fertile per farsi delle esperienze partendo dalla lingua, quando sono arrivata e la competizione era ancora a livelli accettabili ma ora, a parità o a costo inferiore, il mercato è pieno di neolaureati cinesi che sanno il fatto loro e che conoscono l’inglese, capisci che da parte nostra un candidato italiano deve sapere offrire di più!”
E cosa sarebbe questo più? Andra non ha dubbi: “Specializzarsi in campi ben precisi come ingegneria, biotecnologie, architettura ma anche medicina e aeronautica”. Sono questi i campi dove mancano più competenze al paese e c’è da fare. In quel caso la lingua è un problema che si può superare.
Continuano ad essere apprezzate le capacità di ragionamento indipendente e la creatività che una cultura come la nostra permette di sviluppare rispetto a un’istruzione cinese, ma devono essere associate a competenze ben precise.
E la sinologia intesa come quel bagaglio di conoscenze della cultura del paese, delle sua tradizioni e lingua? “Per stare in Cina bisogna amare questo paese e la sua cultura, questo è chiaro. Ma nemmeno parlando il cinese perfettamente o immergendosi a pieno nella cultura cinese si riescono a superare quelle barriere culturali che spesso sono invalicabili,” commenta Angiola.
E ammette: “So benissimo che nel mio lavoro ci sono certe situazioni in cui è meglio che mi faccia da parte e che siano i miei colleghi cinesi a gestire questioni che hanno a che fare ad esempio con i gusti, l’estetica e la sensibilità cinesi. Io posso fare delle ipotesi, loro vanno a colpo sicuro”.
Altro grande scoglio è quello relativo a come la Cina voglia essere percepita all’esterno. Come dimostrano i recenti fatti, è difficile per noi stranieri capirlo e può davvero diventare terreno di scontro. Spesso il sinologo, inteso come il conoscitore e amante della Cina e della sua cultura, è troppo ancorato a un’idea romantica di una Cina tradizionale – quella degli hutong e degli shikumen per intenderci – che non è quella per cui il cinese medio vuole essere conosciuto all’esterno. “Siamo i primi a disperarci quando vediamo parti tradizionali delle città demolite per lasciare spazio a nuove costruzioni” dice Angiola. E così il sinologo finisce a volte per diventare il peggior nemico di se stesso.
Esperta di sostenibilità sociale e ambientale. Si è formata nel mondo della ricerca accademica (prima alla Fondazione Eni e in seguito all’Università Bocconi) ed é arrivata in Cina nel 2007. Negli anni cinesi ha lavorato come consulente e collaborato con diverse testate italiane online quali AgiChina e China Files per le quali ha tenuto il blog La linea rossa e la rubrica Sustanalytics oltre a curare il volume “Cina e sviluppo sostenibile, le sfide sociali e ambientali del XXI secolo, L’Asino d’oro (2015). Dopo una parentesi nel settore privato come Communications & Corporate Affairs Manager in Svizzera, é rientrata in Italia e ora vive a Milano.