Facile capire quindi come il contesto moda cinese non avesse alcun tipo di legame con quello della moda patinata e degli uffici stile delle aziende italiane ed europee.
A mettere in contatto questi due mondi e scommetterci sono state tre donne. Elisabetta Berla e Sabrina Damassa, grande esperienza nel campo della moda in Italia e fuori e Angelica de Vito unitasi nel 2007, ex consulente con alle spalle anni in Cina e tanta voglia di tornarci. Ultima arrivata nel 2010, Cherie Ding, oggi manager della sede di Shanghai.
Con Between Design Research si occupano di consulenza, ricerca e selezione di stilisti e professionisti per le aziende di moda e accessori.
Elisabetta racconta così l’esordio nella terra di mezzo. “In Cina ci siamo arrivate per istinto. Era il 2007 e non avevamo alcun contatto nel paese. Nel nostro settore la Cina era raccontata come il demone che avrebbe rubato lavoro a tutti. Abbiamo deciso che a noi interessava scoprirla in prima persona ed essere dei pionieri nel nostro campo”.
L’idea è subito quella di portare un proprio modello di lavoro e di business in terra cinese ma con qualcosa in più. “Fin da subito ci siamo concentrati sui clienti cinesi, non ci interessavano le aziende italiane operanti in Cina, ma volevamo proprio capire in che modo operavano le aziende di moda e design cinesi” .
Uno scontro culturale, gli inizi, lo racconta Angelica “L’impatto è stato durissimo, le aziende cinesi non capivano nemmeno cosa intendessimo quando parlavamo di costruire il brand. Alternavano grande entusiasmo a incredulità. Per loro pagare per un servizio di recruitment strategico non aveva senso”.
Erano quelli i tempi in cui un’azienda dell’abbigliamento cinese aveva solo bisogno di una faccia straniera allo stile, poco importava di chi fosse e cosa portasse. Il recruitment non esisteva e si lavorava ancora con il passaparola, quindi i pochi arditi creativi occidentali che si avvicinavano alle aziende cinesi avevano via libera a quei tempi.
Oggi le cose sono cambiate nella misura in cui il mercato interno si è sviluppato ed è divenuto più sofisticato, è nata la necessità di servirlo al meglio.
A spiegare come si é arrivati a questo punto è Elisabetta: “Noi europei ed italiani in particolare, siamo cresciuti con un portato estetico importante, continua fonte di ispirazione per il mondo dei creativi. I cinesi, benché abbiano una cultura millenaria alle spalle, senza nulla da invidiare alla nostra, non sono ancora stati capaci di rielaborarla in qualcosa di dirompente simile a quello che fecero negli anni ’80 i Giapponesi, che portarono davvero una nuova aria nella moda “. Certo ci sono casi di designer cinesi interessanti e di linee molto legate alla cultura cinese, ma è sempre qualcosa che rielabora la tradizione storica passata e non di nuovo e rivoluzionario.
Rivolgersi a un creativo straniero è quindi spesso una strada per costruire il proprio brand secondo le metodologie che la moda globale prevede. La rivoluzione l’hanno guidata alcune grandi aziende del men’s wear, da Youngor a Lilanz ai grandi gruppi del cachemire dell’Inner Mongolia, da lì a cascata si è registrata un’apertura più strutturata a personale creativo proveniente da oltre muraglia.
“Oggi siamo arrivati al punto che alcune aziende cinesi, invece di relegare il personale non cinese al solo ruolo creativo, iniziano anche ad assumere esperti di marketing, dando loro accesso ai numeri e alle strategie dell’azienda” spiega Elisabetta.
Si tratta di un cambiamento culturale importante che ha portato anche a un innalzamento delle professionalità richieste da parte dei clienti cinesi. “Ora un Cv non è spendibile in Cina se non ha collaborazione con top brand del lusso. Da Gucci, Hermes, Celine, Chloé’, dice Angelica.
Mettere in contatto professionisti occidentali con la Cina ha però mostrato, almeno in passato, una serie di problematiche connesse che Between si è trovata a gestire. “Immaginati un designer sofisticato, che aveva sempre lavorato nel lusso e che si trovava catapultato nell’ufficio stile di qualche mega azienda cinese. Ai tempi non c’erano ruoli chiari, spesso nemmeno una strategia, in pochi parlavano inglese e le sedi di lavoro, ben diverse da quelle a cui erano abituati”. E non tutti ce l’hanno fatta. Chi ha avuto successo, però ha avuto la possibilità di fare moltissimo, di prendere in mano la costruzione di un brand dalla collezione fino all’art direction.
La Cina rimane per il comparto moda un mercato interessante. “In occidente se si hanno delle idee è difficile mettere in piedi perché il mercato è saturo, in Cina questo è ancora possibile quanto alle iniziative imprenditoriali.” ci racconta Angelica.
E aggiunge “Se invece l’intenzione è quella di entrare in azienda e nell’ufficio stile di qualche azienda cinese, Europa e Italia rimangono ancora una scuola importante dove imparare per poi trasferire le proprie competenze altrove. Difficile è invece compiere il passo nel verso contrario, ovvero lavorare in Asia e rientrare in Europa dove modalità e numeri sono completamente diversi. Chi parte generalmente non torna”.
Esperta di sostenibilità sociale e ambientale. Si è formata nel mondo della ricerca accademica (prima alla Fondazione Eni e in seguito all’Università Bocconi) ed é arrivata in Cina nel 2007. Negli anni cinesi ha lavorato come consulente e collaborato con diverse testate italiane online quali AgiChina e China Files per le quali ha tenuto il blog La linea rossa e la rubrica Sustanalytics oltre a curare il volume “Cina e sviluppo sostenibile, le sfide sociali e ambientali del XXI secolo, L’Asino d’oro (2015). Dopo una parentesi nel settore privato come Communications & Corporate Affairs Manager in Svizzera, é rientrata in Italia e ora vive a Milano.