Oggi tutte le più importanti megalopoli cinesi si sono riempite di ristoranti stranieri, fra cui non mancano locali italiani. Nonostante una cultura diversa, una burocrazia non sempre amica e palati complicati, c’è chi è riuscito a coltivare delle vere e proprie eccellenze del food made in Italy.
Come Rino De Feo e Massimiliano Esposito.
Rino – soprannominato Chef Rino – viene da Castellamare di Stabia e tiene subito a sottolineare le sue radici. Lo zio chef a Capri, la mamma da sempre una grande cuoca, ma più in generale le tradizioni culinarie familiari riproposte a oltre 7.000 chilometri di distanza. “Ogni cuoco attinge dalle proprie origini – ricorda Rino – Io ho appreso tutto concretamente e ho portato all’estero la tradizione napoletana.
Da otto anni e mezzo in Cina, Rino ripercorre la sua carriera all’estero dopo una gavetta italiana. Dagli inizi in Indonesia, quindi il rientro in Italia e l’approdo oltre la Grande Muraglia, grazie alla chiamata di un amico e socio. “Inizialmente lavoravo come cuoco – dice Rino ripercorrendo i suoi passi – poi ho avuto l’idea di aprire i locali. Ho trovato persone disposte a finanziare le attività ma che soprattutto hanno apprezzato le mie proposte innovative”.
Massimiliano, anche lui campano come Rino, si è diplomato alla scuola alberghiera in Italia e, dopo aver fatto il militare, ha girato il mondo affinando la sua esperienza. “Sono stato in Europa e dopo in America, Africa e Asia – prosegue Chef Massimo – Mi trovo in Cina da 5 anni e ci sono arrivato tramite un carissimo amico, Paolo Monti, il corporative chef del gruppo Gaia di Hong Kong, che ha 40 ristoranti tra Shanghai e Pechino.
Mi fu proposto un contratto per il ristorante Isola di Pechino e ho accettato”. I primi anni di lavoro hanno portato a Massimiliano grandi soddisfazioni, tra coperture mediatiche e articoli sui giornali a coronare i suoi successi professionali.
Portare il sapore di Napoli in Cina potrebbe essere un azzardo, eppure Rino ci è riuscito dopo anni di intenso lavoro. “La Cina è un mercato molto difficile – conferma – Il mio segreto è stato non cambiare niente delle tradizioni culinarie della mia terra. Da Rino i cinesi sanno che si mangia la pasta al dente o di Gragnano. Tutti piatti tradizionali che mi permettono di avere la meglio su quell’Italian Style che è soltanto business e poca qualità, che non c’entra niente con la nostra cucina”.
Non solo, perché come conferma Massimiliano, il mercato cinese si è evoluto molto: “Prima i cinesi non andavano molto all’estero, mentre adesso viaggiano e sanno cosa vuol dire mangiare bene”. Se oggi Rino ha trovato la formula giusta è perché non si è abbattuto di fronte ai primi, inevitabili, ostacoli. “All’inizio è stato tragico per vari motivi: la lingua, la reperibilità dei materiali… E poi una diversa cultura che incideva anche sul cibo. I cinesi – sottolinea Rino – erano lontani dal gradire quello che per me era cucinare. Quello che facevo non trovava il parere positivo dei locali, che magari volevano sughi non saporiti oppure la pasta stracotta. Insomma, bisogna avere pazienza e lavorare molto”.
Tornando alla conoscenza del cinese, la lingua è sicuramente un ostacolo ma può essere superato. “Personalmente non conoscevo il cinese – spiega Rino – Noi in cucina abbiamo spesso ragazzi che tra di loro non si capiscono. C’è chi parla mandarino e chi cantonese. Se ne esce insegnando loro l’inglese, ma anche con la bravura. La cucina non è linguaggio di parole ma è fatto da gesti e movimenti. Il ragazzo cinese mi segue per un fatto di gesti, per un fatto metodico. Magari i cinesi non capiranno mai cosa significa il gusto e non si emozioneranno mai davanti a un piatto, ma con impegno te lo fanno a regola d’arte, se per loro sei un bravo maestro. Se ci riesci ottieni grossi risultati.”.
Anche per Chef Massimo un limite è la lingua, “Bisogna aver chiaro che l’Italia rappresenta la tradizione culinaria per l’occidente, così come la Cina per l’Oriente. Queste sono le due cucine più antiche del mondo, con modi e metodi agli antipodi”.
Se il settore gastronomico è cambiato è anche grazie a chef come Rino e Massimiliano. C’è chi ha preferito accontentare il cinese arrivando subito al suo gusto, ma snaturando la cucina tipica italiana, e chi invece è rimasto legato a doppia mandata alla propria tradizione culinaria. La concorrenza ha poi provocato una crescita nel numero di ristoranti italiani, quindi è l’intero settore a subire miglioramenti.
“Personalmente – aggiunge Chef Massimo – ho visto cambiare l’attenzione che i cinesi hanno sull’ healty food. Sono sempre più attenti a come mangiare e a come spendere i soldi nel cibo. Poi nel nostro settore è approdata in Cina da due anni la guida Michelin. È arrivata a Shanghai, e presto sarà lanciata anche a Pechino. Per quanto riguarda ulteriori evoluzioni dobbiamo aver chiaro che lo Chef cinese è all’avanguardia ma è sempre attaccato alle tradizioni. Non ama variare le ricette. Per i cinesi le ricette sono arte che si tramanda.”
Allargando lo sguardo sul mercato gastronomico cinese, si possono fare considerazioni interessanti. “Per i cinesi certe caratteristiche di piatti stranieri sono negative. La pizza napoletana per esempio per loro è bruciata, essendo abituati a Pizza Hut” ci spiega Rino.
Massimiliano sottolinea invece una affinità che in qualche modo ci avvicina alla Cina: “I cinesi consumano noodles. Dicono addirittura che Marco Polo abbia portato gli spaghetti dalla Cina in Italia, e che noi li abbiamo trasformati in quel che sono oggi. Insomma, in qualche modo c’è un filo conduttore, siamo mangiatori di pasta”.
Da un punto di vista lavorativo nel settore della gastronomia, in Cina si ricercano oggi figure professionali che possano coprire più ruoli all’interno dei ristoranti. Sono richieste qualifiche basilari, tra cui il diploma, ma anche esperienza pregressa.
“Non è come in Italia – dice Rino – qui i cinesi non hanno esperienza nel fare pane, dolci e via dicendo. Li devi formare. Ma sempre meno locali vogliono lavorare nella ristorazione. Eppure non posso nemmeno portare un ragazzo giovane dall’Italia, perché è molto difficile ottenere il visto se non hai un’esperienza maturata di almeno 4-5 anni nel settore”.
Massimiliano si sofferma sullo sviluppo degli hotel internazionali a cinque stelle: “Quasi tutti hanno un ristorante italiano o occidentale e quindi richiedono chef. Ci sono anche ristoranti italiani di livello. Shanghai ad esempio ne ha circa 11.600. Un giovane che vuole intraprendere un’esperienza qui deve innanzitutto fare un’esperienza all’estero in un altro paese per affinare le basi della sua carriera. Poi potrà entrare al meglio nel circuito cinese. I requisiti sono però molto alti. Il diploma è basilare ma il candidato deve avere esperienze molto mature all’estero e una capacità gestionale spiccata. Per muoversi in Cina conoscere l’inglese è fondamentale, meglio ancora se si parla anche cinese”. In generale è consigliato entrare nel mercato gastronomico cinese in punta di piedi.
Attenzione poi a non tralasciare un aspetto fondamentale. La Cina è un paese protezionista e il cinese, in genere, ama mangiare cibi cinesi. La cucina italiana, così come quelle straniere, oltre la muraglia sono soltanto sfizi del momento. “Molti cinesi – conferma Chef Rino – vengono a mangiare nei ristoranti italiani per un fatto di immagine, di moda, non per il cibo. D’altronde la cucina locale è così vasta che è difficile spostare il baricentro. Inoltre c’è da fare un discorso economico. Fino a due anni fa i nostri locali erano stracolmi di stranieri. Direi che il 60-70% erano clienti stranieri; il restante, cinesi. Oggi è cambiato tutto ed è il contrario. La merce che compriamo dall’Italia ci costa 10 volte del suo costo in Italia, gli affitti sono 4-5 volte più alti di una grossa città italiana. Un piatto di pasta da noi non costa 8 euro, ma intorno ai 20-25”.