Giuseppe Gabusi, in che modo la pandemia può cambiare le tendenze globali e i rapporti tra Italia e Cina?
In generale io penso che la pandemia non stia creando fenomeni nuovi ma stia accelerando dei trend che già esistevano. E i rapporti con l’Italia non fanno alcuna eccezione. Per esempio c’è il trend del decoupling. Non so se davvero si vada verso una deglobalizzazione ma di certo c’è la precisa idea che un ciclo della globalizzazione basato sulla Cina come fabbrica del mondo è finito. Molte aziende stanno già rilocalizzando altrove le proprie attività produttive. In generale le catene globali di valore tenderanno a diventare più corte. E anche l’Italia dovrà fare i conti con una pressione molto forte, in arrivo soprattutto dagli Usa, per realizzare il decoupling, cioè la separazione tra un’economia basata sull’occidente e un’economia di area cinese e asiatica costruite secondo standard e filosofie di produzione diversi. Ora l’Italia, così come tanti altri, è un po’ tirata per la giacca da una parte e dell’altra dai due grandi contendenti (Usa e Cina). La pandemia ha accelerato una contesa già in corso. Una contesa commerciale, certo, ma sempre più anche ideologica e valoriale. E la stessa Unione europea dovrà fare delle scelte.
Nel post Covid quale può essere il modello vincente?
La pandemia ha dato l’opportunità alla Cina di dimostrare quanto fosse efficace il proprio modello di gestione della crisi sanitaria, basato su un approccio autoritario che non prevede un ampio rispetto delle libertà individuali come vengono intese in occidente. Anche se, per certi versi, possiamo dire che di fronte alla pandemia anche diverse società occidentali si sono comportate in maniera simile. La Cina è ripartita prima degli altri, anche per una questione cronologica degli eventi pandemici. Oggi vediamo che, a causa della crisi successiva alla pandemia, ovunque lo Stato sta tornando pesantemente nell’economia. Anche dove tradizionalmente non accadeva, come per esempio in Germania con Lufthansa.
Tornando alla scelta tra Usa e Cina: è davvero una necessità compierla? In che modo ci si può districare tra gli interessi di Washington e Pechino?
In un suo recente intervento, Borrell ha detto che l’Europa deve trovare una sua via nei confronti della Cina, senza soggiacere alle direttive o alle pressioni degli Usa, una scelta che il settimanale britannico The Economist ha definito “opzione Sinatra” perché l’Europa deve trovare una sua “way”. Un documento ufficiale dell’Ue del marzo 2019 definisce la Cina un rivale sistemico ma anche un partner negoziale e un concorrente economico. E’ un difficile gioco di equilibrismo tenere insieme queste tre cose, le relazioni con la Cina sono di fatto una sorta di Giano Trifronte. E all’interno dell’Ue ci sono posizioni molto diverse, dall’ipercritica Svezia alle più filocinesi Grecia e Ungheria.
Che cosa può fare l’Italia in questo scenario?
Le alleanze internazionali non sono messe in discussione, così come la linea europeista e transatlantica. Il dilemma è come approfittare di una potenziale crescita delle relazioni commerciali con la Cina, che per ora rappresenta solo meno del 5% del commercio totale italiano. Come intercettare questo potenziale (sperando che si materializzi) senza sacrificare l’interesse nazionale? E’ uno sforzo difficile che l’Italia, e non solo, deve compiere. Aver firmato il memorandum of understanding per le Vie della Seta di certo non aiuta i rapporti con Washington e Bruxelles, ma quell’accordo mi pare sia stato un pu’ svuotato nel suo significato rispetto alle fanfare dello scorso anno. Bisogna insistere a livello comunitario per avere un approccio e una direttiva condivisa nei confronti della Cina, in modo da trovare spazi di manovra consoni al perseguimento degli obiettivi nazionali e all’aumento dell’export. Allo stesso modo bisogna capire quali paletti mettere sugli asset strategici, perché in tempi di crisi l’appetibilità di molte aziende italiane ed europee aumenta e c’è il rischio di acquisizioni extraeuropee, anche ostili. Governi di più Stati membri ormai sostengono che serva una vera politica industriale europea.
C’è chi ritiene che il Covid-19 possa decretare la fine della globalizzazione per come la conosciamo. E’ davvero così? Se si va incontro a una “regionalizzazione” quali possono essere i nuovi equilibri dell’Asia/Pacifico e il suo ruolo nello scenario globale?
Come dicevo prima, la globalizzazione sarà più “regionale” con tre grandi aree: una nordamericana con al centro gli Usa, una europea con al centro la Germania e una dell’Asia Pacifico con al centro la Cina, ma anche altri attori come Corea, Giappone e Taiwan. Che l’Africa subsahariana e l’America latina possano essere davvero coinvolte nella globalizzazione mi pare un’idea che non regge alla prova dei fatti. La pandemia accelera l’interconnessione a livello intraregionale ma rallenta quella a livello interregionale. Bisogna ricordare che tanti paesi dell’area Asia Pacifico sono cresciuti grazie anche alla Cina, come Singapore, Australia e Nuova Zelanda. Questi paesi non possono fare a meno di Pechino dal punto di vista economico e finora hanno compiuto un difficile esercizio di equilibrismo, mantenendo una grande connessione economica con la Cina e un’alleanza (o almeno un’amicizia) in materia di sicurezza con gli Usa. Penso per esempio al caso eclatante del Vietnam. L’Australia è ora apertamente critica con Pechino, anche se ciò pone a rischio le relazioni commerciali. Bisogna vedere se e come il decoupling verrà realizzato. Io credo che si risolverà in una forma minore rispetto a quella di cui si parla, considerato il vantaggio competitivo raggiunto dalla Cina. E’ chiaro che il trend storico di lungo periodo potrebbe essere quello di un mondo asiatico più sinocentrico e con gli Usa sempre più assenti dal Pacifico occidentale. Questo penso sia anche l’auspicio di Pechino, la cui maggiore assertività di questi tempi però non credo contribuisca a realizzarlo.
Il dibattito sulla Cina sembra essere sempre più polarizzato, anche in Italia. O si è pro, o si è contro. Polarizzazione che si può intravedere a livello politico e non solo. In che modo si può riuscire ad andare un po’ oltre e aumentare la conoscenza di un paese e di un’area che non possono essere ignorati?
Si può superare con un maggiore spessore del dibattito pubblico, raggiungibile con una maggiore conoscenza e comprensione del mondo di cui parliamo. In questo credo che accademie e think tank indipendenti come il Torino World Affairs Institute (T.wai) possano dare un contributo importante, formando le nuove generazioni, facendo ricerca e presentando spunti a utili a policy makers e attori economici. A Torino, per esempio, abbiamo creato una buona sinergia tra università, mondo culturale e mondo politico attraverso il TOChina hub, che organizza una summer school (appena iniziata) e sostiene il corso di laurea in Scienze Internazionali, con un indirizzo Cina a Studi Globali. C’è poi un percorso come il ChinaMed Business Program pensato per chi vuole lavorare in ambito aziendale nella cornice dei rapporti tra Cina e Mediterraneo allargato, che vengono analizzati attraverso la piattaforma di ricerca ChinaMed. Abbiamo lanciato, insieme alla Camera di Commercio Italia Myanmar, IL TOAsia Export Training, un corso per le aziende che desiderano esportare nel mercato cinese e in quelli del Sud Est asiatico, con il sostegno anche della Camera di Commercio di Torino e la collaborazione di Clubasia, Intesa Sanpaolo e Sace. Insomma, facciamo un po’ da raccordo tra il mondo della ricerca e della formazione e quello delle decisioni strategiche, nel settore pubblico e privato.
A livello nazionale però la nostra politica estera non appare sempre abbastanza matura e consapevole.
Purtroppo, spesso la politica estera in Italia si riduce a slogan e cori da stadio per urlare contro l’avversario interno di turno, tramutandosi in semplice strumento di consenso elettorale. Così non si va da nessuna parte. Per esempio, qualcuno dovrebbe spiegare perché la Lega è improvvisamente diventata così anti cinese dopo aver partecipato all’adesione italiana alla Belt and Road. Così come mi si dovrebbe spiegare perché il governo gialloverde abbia aderito a uno dei progetti infrastrutturali più giganteschi mai concepiti (che prevede anche importanti costi ambientali) senza, allo stesso tempo, fare passi avanti su Tav e altre grandi opere. Credo ci si debba porre una domanda, che ai tempi della Guerra fredda Usa-Urss non esisteva perché il blocco sovietico non era incluso nell’economia globale come ora lo è la Cina: si vogliono avere relazioni commerciali solo con i paesi puramente democratici o possiamo fare affari anche con paesi che del tutto democratici non sono? Se si sceglie la prima opzione non so quanti paesi restino con cui coimmerciare a livello globale. L’illusione liberale di trasformare e democratizzare la Cina attraverso l’integrazione nei mercati globali era mal posta sin dall’inizio e a lungo ha fatto comodo a quelle multinazionali che volevano delocalizzare per abbassare il costo del lavoro. Bisogna capire come difendere i nostri valori e i nostri interessi nazionali continuando a fare i conti con una parte del mondo che democratica non è e non sembra avere intenzione di diventarlo.
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.