Quando si cammina in precario equilibrio anche un piccolo sospiro di vento rischia di farti cadere. E Mike Pompeo sbuffa forte. Il segretario di Stato degli Stati Uniti è tornato in Italia. Stavolta niente Abruzzo, la sua due giorni è tutta romana. E vaticana. L’impressione è un po’ quella che torni il Big Brother e i piccoli amici italiani debbano rassettare al meglio la tavola, sulla quale verrà poggiato un menu dalle caratteristiche già ben definite: le portate principali saranno tutte molto “cinesi”. 5G, Via della Seta, porti, magari spazio. A un mese e spiccioli dalle elezioni americane, il segretario di Stato Usa ribadisce al governo italiano la linea della Casa Bianca: niente sbandate sulla via di Pechino.
In realtà, quelle “sbandate”, o deviazioni di percorso, ci sono state eccome nel corso degli ultimi anni. Quantomeno a livello formale, con quell’adesione alla Belt and Road che dalle parti di Washington hanno interpretato (nostro malgrado) come un segnale d’allarme e non come un (giustificato) tentativo di colmare il divario commerciale che separa l’Italia da altri partner europei (che però quel memorandum non hanno mai avuto bisogno di firmarlo per fare affari con Pechino, segnale della minore rilevanza o dell’assenza di una strategia sulla Cina nel nostro paese).
La partita che si gioca è più che delicata. Negli scorsi mesi il governo, e Luigi Di Maio in primis, hanno lanciato diversi segnali di “ripensamento” atlantista. La scorsa settimana è emersa, durante una riunione a Palazzo Chigi, una linea più dura sul 5G, pur rifacendosi alle mosse europee per non rischiare di diventare più realisti del re in un tema che rischia di creare frizioni con la stessa Pechino. Tanto che c’è chi ha parlato di un ban alla “c’è, ma non si dice” (un po’ alla Toto e Peppino: “La nebbia c’è, ma non si vede”). E alla vigilia della visita è arrivato un cadeau, con il porto di Trieste che dopo essere stato a lungo nel mirino della Cina e della Belt and Road è finito ai tedeschi.
E’ stata infatti ufficializzata l’intesa con la Hhla (che diventerà primo azionista dello scalo giuliano entro fine 2020) di Amburgo, uno dei primi porti ferroviari al mondo. Interessante la lettura che fa di questo passo Zeno D’Agostino, presidente dell’autorità portuale di Trieste che era stato anche al China International Import Expo di Shanghai dello scorso anno. “L’intesa con la tedesca Hhla di Amburgo è un’ottima soluzione per non rinunciare alla Via della Seta. Sottolineo Via della Seta e non Belt and Road: il secondo èun progetto cinese, il primo è un corridoio trasportistico deciso dal mercato e non pianificato da nessuno che propone una soluzione europea. In questa, Amburgo e Trieste non sono soggetti passivi come accade quando si entra nella Belt and Road, ma sono soggetti propositivi che accettano la sfida”. Quindi sì alla Via della Seta, no alla Belt and Road.
Un cambio (parziale) di orizzonte che non può che far piacere a Washington, che nei suoi cahiers de doléances aveva inserito anche il capitolo delle infrastrutture, e dunque anche dei porti, con Genova e Taranto che restano (per ora) nel mirino di aziende in qualche modo collegate al Dragone.
USA IN AZIONE ANCHE A SAN MARINO
L’azione americana non si ferma a Roma e Santa Sede. Proprio mentre Mike Pompeo incontrava Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, un rappresentante diplomatico Usa visitava anche la Repubblica di San Marino, che negli ultimi anni ha sviluppato un ottimo rapporto con la Cina. Si tratta di Ragini Gupta, nuova console generale statunitense a Firenze. Dopo la presentazione ufficiale, sono state consegnate alcune donazioni sanitarie americane al Titano alla presenza del Segretario di Stato alla Sanità, Roberto Ciavatta. Il console americano ha incontrato anche il Segretario di Stato all’Industria, Fabio Righi. Per chiudere, spiega Rtv, con una visita alla nuova sede della Fratellanza San Marino – America. |
“Nella mia discussione con il premier Giuseppe Conte gli ho chiesto di fare attenzione alla privacy dei suoi cittadini” per quanto riguarda la creazione della rete 5G, ha detto Pompeo in conferenza stampa congiunta con Di Maio, affrontando di petto quella che è probabilmente la preoccupazione principale della Casa Bianca, che dopo Huawei ha messo nel mirino anche tutta un’altra serie di realtà legate al mondo della tecnologia e dell’innovazione cinesi, da WeChat a TikTok fino al principale produttore di chip Smic. Il tutto mentre Huawei organizza, quasi in contemporanea con lo sbarco a Ciampino di Pompeo (“una coincidenza”, l’ha definita il presidente di Huawei Italia Luigi De Vecchis), una conferenza stampa per presentare l’apertura del suo nuovo laboratorio di cybersecurity di Roma, ribadendo che, nonostante le “pressioni violente” degli Usa, non ha nessuna intenzione di lasciare il nostro paese (qui i dettagli).
“Sul 5G abbiamo ben presente le preoccupazioni Usa e la responsabilità che grava su ogni Paese della Nato, l’Italia è pienamente conscia della necessità di assicurare la sicurezza delle reti 5G, è un’assoluta priorità e per questo siamo a favore di regole Ue comuni”, ha ribadito Di Maio. Un modo per dare corda agli Usa ma anche per prendere tempo, quello di rifarsi a normative condivise a livello europeo, e nel frattempo sperare che dopo le elezioni americane si possa arrivare a una bonaccia sulle relazioni bilaterali Usa-Cina, con dunque il ritorno di qualche occhio sonnacchioso sugli affari dei paesi considerati alleati da Washington. Speranza che molto difficilmente si concretizzerà, a prescindere se alla Casa Bianca il prossimo gennaio ci sarà ancora Trump oppure ci entrerà Joe Biden.
Certo, i tempi sono cambiati da quando, in veste di ministro dello Sviluppo economico, Di Maio firmava l’adesione al memorandum sulla Belt and Road, oppure da quando brindava a prosecco con Xi Jinping (con tanto di maglia azzurra) a Shanghai. Qui il titolare della Farnesina ascolta Pompeo dire che “il Partito comunista cinese sta cercando di sfruttare la propria presenza in Italia per i propri scopi strategici, non sono qui per fare partenariati sinceri”.
Di Maio garantisce a Pompeo che “l’Italia è saldamente ancorata agli Usa e all’Ue a cui ci uniscono i valori e gli interessi comuni ai paesi Nato”. E descrive i rapporti bilaterali “eccellenti sotto tutti i profili, e lavoriamo per mantenerli tali”. Ricordando anche l’accordo, annunciato nei giorni scorsi, sul progetto Artemis, con l’Italia che si è allontanata da Pechino per quanto riguarda la cooperazione in materia di spazio, riavvicinandosi in maniera forse decisiva a Washington, completando un percorso cominciato già lo scorso anno.
In generale, l’impressione è che gli Usa vogliano in questo frangente usare più carota che bastone con Roma. A suffragio di questa ipotesi, quella che Di Maio definisce “attenzione” di Pompeo al caso di Chico Forti, l’italiano condannato per omicidio negli Stati Uniti e che si è sempre professato innocente. E poi c’è la Libia, tema fondamentale per la politica estera del governo, che negli ultimi anni era stato lasciato un po’ solo dagli Usa. Negli scorsi mesi però Washington sembra tornata a occuparsi del dossier. “Contiamo moltissimo sull’influenza che gli Usa potranno esercitare sugli interlocutori libici e gli attori internazionali per evitare eventuali azioni di sabotaggio”, ha detto a proposito Di Maio, definendo gli obiettivi di Roma e Washington “sostanzialmente convergenti”.
Ma nella lista di cose da fare per Pompeo ce n’era un’altra molto importante: incontrare Papa Francesco e provare a convincerlo a non rinnovare l’accordo sulla nomina dei vescovi con Pechino. L’obiettivo è fallito ancora prima del suo atterraggio. Bergoglio aveva fatto sapere nei giorni scorsi che non lo avrebbe ricevuto, adducendo motivi formali. L’imminenza delle elezioni americane avrebbe infatti sconsigliato al pontefice di ricevere uno degli uomini di Trump, per non rischiare di finire dentro una campagna elettorale già abbastanza corrosiva di suo (come dimostra il primo dibattito televisivo tra i due candidati, dominato da insulti e interruzioni). Non solo. La Santa Sede aveva già fatto sapere che il dialogo con Pechino sul rinnovo dell’accordo sarebbe andato avanti, anche dopo un articolo firmato da Pompeo nel quale veniva avvertita del rischio di “perdere” la propria “autorità morale”.
Nonostante questo, non era facile prevedere il livello dello scontro che si è poi consumato tra il rappresentante Usa e il Vaticano, una volta dopo il suo arrivo a Roma. Pompeo ha preso parte a un simposio organizzato dall’ambasciata presso la Santa Sede intitolato: “Fare avanzare e difendere la libertà religiosa internazionale attraverso la diplomazia”. E da quel palco non ha usato mezzi termini: “In nessun luogo oggi la libertà religiosa è sotto attacco più che in Cina”, ha detto Pompeo, che ha citato la questione degli uiguri, aggiungendo che i cinesi “non risparmiano certo i cattolici” e ha parlato di chiese “dissacrate e distrutte”, laici e religiosi arrestati. “Gli stati fanno compromessi, la chiesa segue la verità eterna”, ha detto ancora Pompeo. Non è mancata anche una punzecchiatura diretta a Bergoglio, quando il segretario di Stato Usa ha chiesto di prendere esempio a Giovanni Paolo II, il quale “seppe assumersi il rischio di difendere la libertà”.
Ma i rappresentanti della Santa Sede non hanno ascoltato in silenzio. Il segretario vaticano per i Rapporti con gli Stati, monsignor Paul Richard Gallagher, è stato il più duro, rispondendo in maniera affermativa a una domanda su una possibile strumentalizzazione del Papa. “Sì, e questa è proprio una delle ragioni per cui il Papa non incontrerà il segretario di Stato americano Mike Pompeo”, aggiungendo una critica a chi ha organizzato il simposio, vale a dire l’ambasciata Usa: “Posso dire questo: normalmente quando si preparano le visite a così alti livelli di ufficialità si negozia l’agenda in privato e confidenzialmente. E’ una delle regole della diplomazia dando la possibilità a entrambi di definire il simposio non dando le cose per fatte”.
Pietro Parolin (grande fautore dell’accordo sui vescovi con la Cina), ha parzialmente smussato i toni: “Mike Pompeo aveva chiesto di vedere il Papa, ma il Papa l’aveva detto chiaramente che non si ricevono personalità politiche in campagna elettorale. Le dichiarazioni successive non c’entrano nulla”, ha spiegato il segretario di Stato della Santa Sede, che ha risposto così alle domande sulle dichiarazioni di Pompeo: “Irritazione non direi, sorpresa sì per questa uscita che non ci aspettavamo anche se conosciamo bene da molto tempo la posizione di Trump e del segretario Pompeo in particolare”. Elaborando: “Sorpresa perché era già in previsione una visita a Roma in cui Pompeo avrebbe incontrato dei vertici della Santa Sede, e ci sembrava quella la sede più opportuna e più adatta per parlare di queste cose”.
Già, perché domani Pompeo sarà comunque ricevuto in Vaticano proprio da Parolin, il quale ha chiesto di tenere fuori il Papa dalla campagna elettorale Usa. “Non saprei dire che ritorno può avere ma non mi sembra che usare questo argomento sia la cosa più opportuna se quello che si vuole ottenere è il consenso degli elettori, non è la maniera di farlo perché questa è una questione intraecclesiale”. Se la missione di Pompeo doveva conquistare i cattolici, probabilmente non è andata così bene.
[Pubblicato su Affaritaliani]Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.