Tra vie di comunicazione, reti informatiche, terra e mare, dovrebbe diventare il grande progetto che la Cina propone al mondo, ma non si sa ancora bene quale sia la sua ratio economica. Tuttavia Pechino ci investe, eccome, e tutti sperano di guadagnarci. Ma l’Italia rischia di perdere l’ennesima ghiotta occasione. Ecco perché. “E in questa maniera vanno li mesaggi del Grande Sire per tutte le province, e ànno albergarie e cavagli aparecchiati, come voi avete udito, a ogne giornata. E questa è la magiore grandezza ch’avesse mai niuno imperadore, né avere potesse niuno altro uomo terreno; ché sappiate veramente che piú (di) 200.000 di cavagli stanno a queste poste pur per questi messaggi.”
Così, nel Milione, Marco Polo racconta per bocca di Rustichello il servizio postale di Kublai Khan lungo la Via della Seta. Ai suoi tempi era resa percorribile dalla pax mongolica, grazie alla quale – si dice – una vergine recante un piatto d’oro poteva viaggiare indisturbata dalla Cina alla Turchia.
Oggi, quando delegazioni italiane e cinesi si incontrano, non c’è modo di evitare i lunghi convenevoli a base di Make Boluo, il grande veneziano, l’uomo che mise due mondi in relazione. Eppure, c’è chi sostiene che Marco Polo fino in Cina non ci sia mai davvero arrivato. Troppe lacune nel suo racconto: dove sono le donne con i piedi fasciati? E le bacchette per mangiare? E la Grande Muraglia? Ha scopiazzato da cronisti persiani, dicono alcuni storici. Senza entrare nel merito, diremo allora che pure la Via della Seta è forse un’invenzione fantastica. E comunque sia, l’Italia ne è per ora tagliata fuori. Alla faccia di Marco Polo.
Ci riferiamo qui alla moderna Via della Seta, la grande proposta lanciata al mondo dal presidente cinese Xi Jinping, nell’autunno del 2013. L’hanno chiamata Yi Dai Yi Lu, “una cintura, una via”, per sintetizzare un progetto a due facce: una via marittima (The 21st Century Maritime Silk Road) e una terrestre (Silk Road Economic Belt), cioè un network di porti, ferrovie, autostrade, gas-oleodotti, reti di distribuzione elettrica e informatiche. L’idea è quella di far viaggiare merci da un capo all’altro di Eurasia – con una diramazione africana – creare legami economici, politici, culturali. Ne sarebbe coinvolto il 70 per cento della popolazione, il 55 per cento del PIL e il 70 per cento delle risorse energetiche mondiali.
In Cina, oggi, tutto è “Via della Seta”. Ogni investimento, ogni progetto a lungo termine. Vuoi che il tuo congresso di biologia, linguistica, numismatica non vada deserto? Vuoi che la tua tesi di dottorato sia letta? Piazzaci l’etichetta “One Belt One Road” (Obor) e vai sul sicuro. Pechino ne parla al mondo come di una visione shuang yin (in cui vincono tutti, win-win), il mantra su cui l’ex Impero di Mezzo costruisce le proprie relazioni diplomatiche.
“È un progetto importante per la Cina, per gli altri bisogna vedere”, ironizza sottilmente Alberto Bradanini, ambasciatore d’Italia a Pechino fino al maggio scorso. E infatti, come sottolinea un operatore bancario internazionale a “Il Venerdì”, “la Cina se ne servirà per esportare la propria capacità produttiva in eccesso, cioè l’acciaio e il cemento che non sa più dove piazzare. E poi, attraverso tutti i rapporti bilaterali che costruirà lungo la Via, cercherà di internazionalizzare sempre più il Renminbi”, la propria moneta, il cui nuovo status di valuta forte è stato sancito dallo stesso Fondo Monetario Internazionale che l’ha appena inserita nel paniere che compone i Diritti Speciali di Prelievo.
“Il progetto Obor non è ancora dettagliato e questo è intenzionale”, spiega Jurgen Conrad, Chief Economist della Asian Development Bank. “Così, Pechino deciderà di volta in volta, con diverse controparti e su diversi progetti”.
Ma la Via della Seta resta un progetto difficile quanto ciclopico. “Ci sono rischi politici”, continua Conrad. “Per esempio, la Cina ha investito in Sri Lanka per costruire il nuovo porto di Colombo. All’improvviso, il governo è cambiato e il progetto è stato bloccato. Questo, chiaramente, suona come un campanello d’allarme per eventuali investitori. Inoltre, chi paga per le infrastrutture che costruiranno i cinesi? Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan hanno tutti un alto livello di debito pubblico, come possono permettersele?”
E soprattutto, a che pro? “Le importazioni di merci cinesi in Kirghizistan e Tagikistan ammontano già al 55 e 41 per cento rispettivamente. Come si può pensare che aumentino ulteriormente, con popolazioni di 5,6 e 8 milioni di persone e un PIL pro capite di 1200 e 1000 dollari l’anno?” Insomma, i mercati attraversati dalla Via della Seta sono troppo piccoli e poveri per assorbire le merci cinesi. C’è però l’Europa, dall’altra parte di Eurasia.
“Certo – continua Conrad – ma in Europa è più semplice ed economico mandare le merci via mare, così come in Iran e Turchia. Al momento, credo che la Via della Seta marittima abbia molto più senso di quella via terra, considerando anche che esiste il trasporto aereo per i beni altamente deperibili o di piccola dimensione.”
Laddove non sembra avere grande senso economicamente, il grande network si comprende guardando all’aspetto politico. È la stessa legge che la Cina applica a casa sua, nelle difficile regioni del Tibet e dello Xinjiang: una pioggia di investimenti per dare lavoro e costruire, quindi, stabilità. Così, si spera per esempio che l’avvio dei lavori per il porto di Gwadar, nel Belucistan pachistano, riduca i conflitti nell’area. In questo senso, la Via della Seta è davvero la prima proposta di ampio respiro che la Cina fa al mondo. Una specie di Piano Marshall aggiornato.
“Lo Stato cinese valuta evidentemente che il beneficio politico valga il rischio economico”, chiosa Conrad.
E ci credono veramente, a Pechino e dintorni. Costerà circa 1600 miliardi di dollari, secondo il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, e per finanziarla la Cina farà leva soprattutto su due strumenti: l’apposito Silk Road Fund (SRF) – 40 miliardi di dollari di capitalizzazione iniziale – e la neonata Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) – 100 miliardi di dollari per cominciare – a cui hanno aderito 57 Paesi, tra cui anche l’Italia. I due istituti finanziari hanno il compito di rastrellare risparmi sui mercati asiatici per destinarli ai progetti legati alla Via della Seta. La Cina ci ha già messo di suo 70 miliardi di dollari complessivamente.
Girano tanti soldi e quindi, con tutti i dubbi che può sollevare, vale comunque esserci sulla Via della Seta. Per lo meno quella marittima.
E qui arrivano le note dolenti per l’Italia.
“Le navi cinesi ci passano davanti, ci fanno ciao ciao con la manina, e proseguono per Gibilterra”, spiega l’ex ambasciatore Bradanini. “Questo da sempre”.
Eppure, appena attraversi Suez e ti trovi nel Mediterraneo, cosa c’è di più ovvio dell’Italia, come approdo naturale?
Il problema è quello dei porti. Ne abbiamo parecchi, come no, ma “non hanno le dimensioni giuste, i fondali abbastanza profondi, i retroporti, le aree di stoccaggio e le linee ferroviarie adeguatamente collegate con la rete europea”, spiega il nostro operatore bancario internazionale. La storia più nota, a questo proposito, è Taranto, dove lo scorso giugno Tct, la partnership tra Hutchinson Whampoa (Hong Kong), Evergreen (Taiwan) e Maneschi (Italia) che aveva ottenuto la concessione del terminal computer per 60 anni, è stata messa in liquidazione. I cinesi sono spesso macchinosi e burocratici, ma 15 anni dalla prima firma per lo sviluppo del porto sono parsi un po’ troppi pure a loro. L’Italia si è incagliata sul drenaggio dei fondali che avrebbe permesso l’attracco delle grandi porta-container. I fanghi sul fondo sono inquinati e quindi andrebbero trattati, ma il problema ha ingenerato un ingorgo burocratico da cui non si è riusciti a uscire. E i cinesi, ancora una volta, hanno fatto ciao ciao con la manina.
“Bisognerebbe concentrarsi su un paio di porti principali, catturare i flussi commerciali e poi ridistribuire i benefici sui più piccoli. Ma da noi non si riesce a fare”, spiega l’ex ambasciatore. Un problema è l’organizzazione logistica: come trasportare i container cinesi dall’Italia al centro Europa? “Il punto è che i porti del nord – Rotterdam, Amburgo – sono più efficienti e quindi le navi preferiscono allungare il viaggio di cinque giorni pur di avere altri benefici. Lì, si attracca, si scarica, si riparte in tempi certi e precisi, da noi invece no. Inoltre, i container svuotati devono poi ripartire pieni e chi esporta verso la Cina è soprattutto la Germania. In italia, come li riempiamo quei container? L’export italiano ha scarsa capacità, bisognerebbe quindi rubare flussi in uscita al Centro Europa. Non è impossibile, la Baviera è più vicina a Trieste che ad Amburgo”.
Lui ha provato a promuovere Livorno – che è ben collegato con il centro Europa – con un progetto dell’ambasciata d’Italia a Pechino e di tecnici dell’Università di Pisa, inoltrato al ministero delle Infrastrutture e a quello dello Sviluppo Economico un paio d’anni fa. “Ma non c’è stata nessuna reazione. Ero andato sia da Cosco sia da China Shipping [i due grandi gruppi di spedizioni cinesi, ndr] per promuovere l’Italia e Livorno, ma è mancata una proposta concreta del nostro governo a quello cinese”. Notizie di corridoio parlano dell’impossibilità di puntare su un porto per rivalità di campanile e veti incrociati. Siamo sempre repubbliche marinare in conflitto tra loro, ma senza la loro ricchezza.
Ora è troppo tardi. La Cina punta sul Pireo di Atene, con 5 miliardi di euro di investimenti e una presenza che risale al 2009. Il traffico di container è passato dalle 400mila TEU (l’unità volumetrica utilizzata per i container) del 2008 ai 3 milioni e 700mila del 2014, per uno dei porti a più rapido sviluppo del mondo. Il nuovo programma greco di privatizzazioni dovrebbe rendere tutto più facile e Pechino punta a finanziare e costruire una “dorsale balcanica” fatta di trasporti e infrastrutture che arrivano fino all’Europa centrale e orientale. L’ennesima conferma è arrivata a novembre, in un incontro molto simbolico – è avvenuto sul treno Shanghai-Suzhou – e altrettanto concreto. Il premier cinese Li Keqiang ha annunciato a sedici rappresentanti dei governi dell’Europa centro-orientale la costruzione della ferrovia ad alta velocità Budapest-Belgrado e manifestato interesse per investimenti a trecentosessanta gradi in tutti i Balcani: flussi turistici privilegiati, industria, agricoltura e, soprattutto, lo sviluppo dei porti di Capodistria, Bar, Tessalonica.
Ecco la dorsale balcanica, punto, fine.
La Via della Seta è anche un legame culturale e lì possiamo forse tornare a giocarcela, con Marco Polo e tutto il resto.
“Sa qual è il problema? Che in Italia non c’è più un Adriano Olivetti che abbia una visione, che investa anche in cultura per dare più respiro al Paese”. Giuseppe Rao è consigliere per l’Innovazione all’ambasciata italiana di Pechino. Cita la storia di Mario Tchou, l’ingegnere informatico italo-cinese che nel 1955, proprio su mandato di Olivetti, riunì una task force di giovani talenti e creò il primo calcolatore elettronico italiano, l’Elea 9003. Tragico, il destino di Tchou: morì in un incidente stradale nel 1961, giusto un anno dopo Olivetti. E l’Italia perse il treno del personal computer. Ora, lui spera, non perderemo il treno che viaggia sulla Via della Seta.
“L’Expo – continua Rao – ha offerto all’Italia un’opportunità di rientrare nel giro della One Belt One Road, perché ci ha messi al centro dell’attenzione. I cinesi si sono inventati addirittura carovane di macchine che attraversano tutta l’Asia per arrivare a Milano, a scopo promozionale. Tutto ciò rivela un amore particolare per l’Italia, perché ci riconoscono di essere civiltà antichissima. Proprio come loro. È un vantaggio competitivo che non sempre sappiamo cogliere”. Ma che dire della cultura italiana piuttosto tradizionale che spacciamo in Cina? Non c’è il rischio di inchiodare il nostro Paese ai soliti stereotipi?
“Lo so, non me lo dica, sono un fan della neo-progressive italiana anni Settanta e pure io sollevo il sopracciglio quando esportiamo i soliti cantanti d’opera, ma ai cinesi piace la melodia e vengono a sentire quella”. Lui, per inciso, per la festa della Repubblica del 2014 ha fatto sfilare, nell’ambasciata di Pechino, gli abiti della più famosa stilista cinese, Guo Pei, confezionati con tessuti italiani e con sottofondo di Pooh, New Trolls e Banco del Mutuo Soccorso. “Per incidere bisogna investire – dice – altrimenti ci si arrangia”. È così, per rafforzare il legame melodico sino-italiano, Rao ha portato Roby Facchinetti dei Pooh in tourné oltre Muraglia: 200mila contatti sull’account Weibo (il Twitter cinese) creato per l’occasione. “Chi fermerà la musica”: vale tutto per esserci, sulla “Via”.
Infine, la Via della Seta è soprattutto umanità in viaggio, culture che si incontrano. Zhang Wei si fa chiamare Arthur Chance, “come Re Artù e come le opportunità”, dice lui. Quarantacinque anni, vestito tutto di nero e con un codino alla Roberto Baggio, armeggia con una sofisticatissima attrezzatura fotografica sulle antiche mura di Khiva, già Asia Centrale sovietica e ora Uzbekistan: ti echeggiano in mente storie di emiri sanguinari e il più grande mercato di schiavi dell’area, trovi una cittadella tirata a lucido per i turisti.
Zhang è di Pechino e viaggia attraverso tutti gli “Stan” centroasiatici “per comprendere – dice lui – come questa gente abbia trovato una sua collocazione tra due montagne culturali come la Cina e l’Europa”. Per capirlo, sta tre giorni in ogni Paese, scatta le sue foto e se ne va. Sogna di entrare nel Travelers’ Century Club, l’associazione di coloro che hanno visitato almeno cento Paesi, agisce con metodo estremo. Ha già tutti i visti in tasca e in ogni Paese assolda una guida che viene a prenderlo al confine e lo scarrozza in giro. Non ha tempo per bersi una birra. Per il suo viaggio ha pagato, in anticipo, trecentomila Renminbi, cioè quasi 45mila euro. “Vedi, tutti sanno che adesso noi cinesi giriamo con i soldi, così voglio viaggiare sicuro e protetto”. Dice di essere “in pensione”, ma lascia intendere che in passato ha lavorato nei media e che suo padre è un alto funzionario.
Sì, dobbiamo abituarci anche a queste strampalate meraviglie contemporanee, se sulla Via della Seta vogliamo esserci. Come Marco Polo, veneziano curioso; anche se si dimenticò di raccontare i kuaizi, le bacchette per mangiare.