Ecco una storia poco conosciuta. Per raccontarla, mi servirò di caratteri cinesi classici, dunque non semplificati, perché, se qualcuno volesse approfondire, il personaggio e la sua opera sono reperibili in bibliografia soprattutto in testi d’epoca.
Si tratta del pittore Shitao 石濤 (1641-1719/1720), nelle cui vene scorreva sangue imperiale giacché la sua famiglia discendeva dal fratello del fondatore della dinastia cinese dei Ming (1368-1644). Aveva tre anni quando le orde dei Manciù sbaragliarono l’esercito Ming e conquistarono l’intera Cina dando vita alla dinastia “barbara” dei Qing (1644-1911); e lui, piccino piccino, fu portato a sud del Paese dai sopravvissuti della sua schiatta e dai lealisti loro sostenitori.
Dopo varie vicissitudini, arrivati a Guilin, il padre di Shitao, in qualità di principe di sangue, si autonominò reggente dei Ming ma venne assassinato durante i moti scatenati da una fazione rivale che rivendicava, anch’essa, la legittimità a governare in quanto Ming. In questa tragica occasione, servi fedeli salvarono il giovanissimo Shitao portandolo fuori della città. Per evitare che fosse riconosciuto, il bimbo fu messo in un convento buddista dove in seguito visse in modo anonimo formandosi al buddhismo Chan 禪 (creato in Cina verso il secolo VI d. C.) che mette in una posizione centrale la meditazione personale, e risente di influenze taoiste.
Se la scelta di mettere Shitao in monastero fu dettata dalla volontà di tenerlo al sicuro, e se negli anni la visione filosofica e religiosa della scuola Chan influirono sulla sua formazione, giunto all’età della maturità egli non tenne mai a presentarsi come monaco e a più riprese insistette per essere trattato come un laico (in una lettera si vantò persino di portare i capelli lunghi cosa non permessa a chi indossava l’abito monastico).
Completata la propria formazione all’interno del monastero, dal 1666 al 1679 Shitao viaggiò per le regioni meridionali e si dedicò al disegno e alla pittura; incontrò artisti famosi e cominciò a raccogliere idee e materiali per farsi un proprio pensiero sull’arte. Dal 1680 al 1689 risiedette a Nanchino dove frequentò l’ambiente dei letterati, degli artisti, degli intellettuali. È durante questo periodo che un avvenimento particolare ci consente di constatare quanto sia stato pragmatico e per niente rivendicativo l’atteggiamento politico di Shitao nei confronti dei Manciù che governavano la Cina: nel 1684, egli si recò a rendere omaggio all’imperatore Kangxi di passaggio a Nanchino.
La cosa fece un certo scalpore perché Shitao, erede dei Ming, considerato eroe patriottico dai Cinesi che avrebbero voluto restaurare una dinastia autoctona, aveva, per così dire, “baciato la pantofola” all’usurpatore manciù. L’avvenimento, però, va visto sotto un’angolazione differente. Innanzitutto, a parte i suoi primi tre anni di vita di cui certo non serbava ricordo, egli aveva sempre vissuto sotto i Qing che nel 1684 – data del suo incontro con l’imperatore Kangxi – governavano la Cina già da una quarantina di anni, dunque la loro autorità era un fatto compiuto, accettato e incontestabile. Inoltre, i maestri del buddhismo Chan che avevano formato Shitao erano noti e stimati a Corte e godevano dei favori di essa, e avevano trasmesso all’allievo il rispetto per i Manciù e la necessità di compromessi se si voleva essere inseriti nei cenacoli culturali del Paese.
A riprova che Shitao non aveva alcun imbarazzo a relazionarsi come suddito dei Qing, c’è un suo secondo incontro con l’imperatore nel 1689, a Yangzhou. Dopo questa data, egli guadagnò Pechino, per tre anni vi dimorò mettendosi in mostra nel milieu dei nobili manciù e degli alti funzionari, e poi si trasferì definitivamente a Yangzhou dove, secondo un passo di interpretazione non certa di una sua lettera al noto pittore Zhu Da 朱耷, fondò una famiglia; il dato che a noi interessa è che a Yangzhou egli si dedicò interamente alla pittura, in altre parole il monaco viene completamente cancellato e dalle sue ceneri nasce l’artista a tutto tondo; si legge in una sua lettera: «Sono incapace di pregare il Chan, né oserei chiedere l’elemosina [com’era diritto dei religiosi] alla quale non sento di avere il diritto. Mi accontento di dipingere più che posso e di vivere della mia pittura.»
A Yangzhou, Shitao impegnò il suo sapere in un’altra forma di estetica, la costruzione dei giardini tradizionali nei quali si fondevano elementi filosofici e la visione cosmologica dell’universo; fra le sue creazioni, in letteratura è citato il Wanshi Yuan 萬石園Giardino delle Diecimila Pietre che pare fosse una meraviglia ma che, purtroppo per noi, non esiste più.
In uno dei giorni a cavallo tra il 1719 e il 1720, Shitao morì.
Se vi state chiedendo perché io abbia voluto parlarvi di Shitao, ora ve lo svelo.
Per cominciare, il personaggio ha tutte le caratteristiche dell’eroe attorno al quale aleggiano fascino e multiforme ingegno, e anche ambiguità: di ascendenza principesca, erede di una dinastia mitizzata che mise al centro del suo governo l’essere cinese e il recupero delle tradizioni più profonde; poi monaco di quelli che studiano le Scritture con maestri valenti, ma monaco che non vuole essere considerato tale, tanto da rigettare la tonsura; e viaggiatore, esteta, pittore, cortigiano che frequenta l’alta società senza disdegnare di mescolarsi con i parvenu del nuovo regime… Sono tante le carte che potrebbero essere giocate per fare di Shitao un personaggio da romanzo popolare. Ma no, se egli va ricordato non è per la sua vita variegata e interessante, ma piuttosto perché introdusse in Cina lo studio della pittura basato sulla riflessione filosofica. In altri termini, laddove alla sua epoca, tutti i trattati artistici si occupano di pittura e di pittori ricorrendo a ricette pratiche, a citazioni, referenze storiche, aneddoti, biografie o agiografie, giudizi critici e apprezzamenti o deprezzamenti estetici, Shitao introduce nella storia dell’arte cinese la profondità e l’unicità dell’atto creativo considerato un atto strettamente individuale, senza occuparsi di pittura e di pittori nel modo celebrativo e ripetitivo caratteristico di tutti i trattati di pittura cinese composti fino ai suoi tempi. Piuttosto che propagandare il rispetto dei canoni artistici della tradizione, egli celebra l’autonomia dell’artista e il suo “io” creatore, dunque mette da parte le accademie e l’accademismo per liberarsi proprio delle catene della tradizione.
Per capire Shitao bisogna riferirsi al suo breve trattato del 1710: Kugua Heshang hua yulu苦瓜和尚畫語錄 (Citazioni sulla pittura del Monaco Zucca Amara). Diciamo subito che Zucca Amara ( Kugua Heshang 苦瓜和尚) è uno dei circa trenta nomi d’arte che Shitao ha utilizzato per complicare inconsapevolmente la vita ai ricercatori che si occuparono e si occupano della sua opera; egli aveva un nome di famiglia (Zhu Ruoji 朱若極), un paio di nomi monastici (Daoji 道濟 e Yuanji 元濟 ), un soprannome ufficiale (Shitao 石濤 ) e, come tutti i letterati e i pittori si dilettava a firmare le sue opere moltiplicando nomi e soprannomi di fantasia (una trentina, appunto).
Il trattato di Shitao è composto da diciotto brevi capitoli molto densi di speculazione filosofica; accanto agli insegnamenti Chan, emergono elementi di taoismo e del filosofo Zhuang Zi. Vi troviamo concetti come: l’Unico tratto di pennello (un solo tratto di pennello basta a rivelare la mano del maestro); o il Compimento della regola (il fondamento della regola risiede nell’assenza di regole); la Trasformazione (l’unico maestro per i pittori antichi e moderni è la Natura); Venerare la percettività (la pittura proviene dal cuore, e il pittore non deve imitare la Natura ma deve riprodurre l’atto creatore della Natura); Pennello e inchiostro (la pittura è il matrimonio di un elemento statico – l’inchiostro – e uno dinamico – il pennello); il Paesaggio (unione dialettica di due complementari-opposti, le montagne e i fiumi),etc.
Come fu accolto Shitao dai suoi contemporanei? I suoi biografi lo descrivono come altero e intransigente che si attirava l’odio delle persone ignoranti e volgari ma anche la stima di una ristrettissima cerchia di intellettuali. La sua arte fu ispiratrice di un gruppo di avanguardia artistica che si formò nella sua città: Gli eccentrici di Yangzhou (Yangzhou bagua 揚州八怪), fra essi molto attivo fu il citato Zhu Da, che mettevano l’individualismo alla base del fenomeno creativo. Se nella collezione imperiale non è stata mai presente un’opera di Shitao, a partire dalla fine dell’Ottocento, con l’avanzare degli stimoli intellettuali che accompagnavano l’incontro-scontro tra la cultura cinese e quella occidentale, e con l’introduzione delle istanze politiche rinnovatrici (come il socialismo e poi il comunismo) che premevano per liberarsi dalla tradizione e dai lacci dell’ignoranza, le sue teorie e le sue pitture cominciarono a interessare l’ambiente culturale più progressista. Attualmente, l’arte di Shitao è presente nelle collezioni private e nei musei di mezzo mondo.
Concludo questa Pillola sul nostro Monaco Zucca Amara citando quanto scrive riguardo a due elementi che stanno connotando sempre di più i nostri tempi e permeano non soltanto ambiti popolari e momenti ludici, ma ormai si sono radicati in modo stabile nella pratica politica e nelle esternazioni dei politici: parlo della stupidità e della volgarità. Ecco cosa scrive Shitao nel suo trattato che dovrebbe essere sulla pittura, ma che è – ormai lo abbiamo capito – un ragionamento filosofico sul come l’essere vivente deve rapportarsi con l’Universo che egli vuole rappresentare. Cito direttamente dal cap. XVI con qualche salto per non farla lunga: «Per la stupidità e la volgarità, la conoscenza è tutta uguale; liberate le orecchie dalla stupidità e avrete l’intelligenza; impedite agli schizzi della volgarità di colpirvi, e troverete la limpidezza … All’origine della volgarità si trova la stupidità; all’origine della stupidità si trova l’accecamento delle tenebre … Una volta eliminata la stupidità, nasce l’intelligenza; una volta eliminata la volgarità, la limpidezza diviene perfetta.» Se avessi ambizioni tanto elevate da volere formare discepoli, potrei aggiungere di mio pugno: chi ha orecchie per intendere, intenda.
Di Isaia Iannaccone*
**Isaia Iannaccone, nato a Napoli, chimico e sinologo, vive a Bruxelles. Membro dell’International Academy of History of Science, è specialista di storia della scienza e della tecnica in Cina, e dei rapporti Europa-Cina tra i secoli XVI e XIX. È autore di numerosi articoli scientifici, di trattati accademici (“Misurare il cielo: l’antica astronomia cinese”, 1991; “Johann Schreck Terrentius: la scienza rinascimentale e lo spirito dell’Accademia dei Lincei nella Cina dei Ming”, 1998; “Storia e Civiltà della Cina: cinque lezioni”,1999), di due guide della Cina per il Touring Club Italiano e di lavori per il teatro e l’opera. Ha esordito nella narrativa con il romanzo storico “L’amico di Galileo” (2006), best seller internazionale assieme al successivo “Il sipario di giada” (2007, 2018), seguiti da “Lo studente e l’ambasciatore” (2015), “Il dio dell’I-Ching” (2017) e “Il quaderno di Verbiest” (2019)