L’iter creativo degli Dei delle Porte, come spesso successe nella commistione tra il vero e il creduto, seguì la via nota: personaggi mitici Shentu e Yulü furono umanizzati come valorosi generali, e successivamente ancora una volta deificati e, sulle porte, rimpiazzati dalle loro effigi.
In lingua cinese, la porta è indicata dal carattere men che vi propongo nella sua scrittura tradizionale perché mostra proprio una porta a due battenti con tanto di soglia e arco d’ingresso: 門 (in carattere semplificato è 门, si risparmiano dei tratti, è vero, ma si perde l’immediatezza dell’antico pittogramma). Il carattere è molto antico, lo troviamo già dal XIII sec. a. C., in epoca Shang, sui bronzi e sulle ossa oracolari usate per la divinazione (carapaci di tartaruga o scapole di animali), e ha sempre mantenuto lo stesso significato: porta, via d’accesso. Se accanto ci aggiungiamo il carattere shen 神 (che da solo, nell’accezione più corrente significa “spirito”, “divinità”, “dio”), otteniamo menshen 門神 ossia “dio delle porte”, “dei delle porte”, divinità taoiste molto venerate nella storia della Cina, il cui culto è tutt’ora in voga nelle campagne. In seguito, per una volta tanto, userò ancora i caratteri tradizionali per rendere omaggio alla loro vetustà, al loro essere forma, spazio e contenuto, e perché sono legati al significato che emanano con lo stesso senso artistico di un quadro.
La prima menzione ufficiale degli Dei delle Porte e del loro ruolo la troviamo nel Li Jing 禮經, in caratteri semplificati 礼经 (Registrazione dei Riti, o anche tradotto come Classico dei Riti). È un’opera compilata tra il III e il II sec. a. C., dedicata ai riti, fondamentali nel confucianesimo; occupava 49 capitoli di cui se ne conoscono soltanto 27, la datazione di ognuno di essi è ancora oggetto di disputa. Per darle autorevolezza, nel passato l’opera è stata attribuita allo stesso Confucio, ma ciò è privo di fondamento giacché è oggi assodato che il suo Autore è Dai il Giovane, che ha riunito brani di un classico precedente andato in parte perduto. Uno dei grandi contributi che il Li Ji ha dato allo studio della civiltà cinese antica è l’uso di uno sterminato numero di vocaboli, il che ha grandemente favorito la comprensione di altri testi e ha fornito un’ulteriore testimonianza della complessità e della centralità dei riti nella società confuciana. Tra le particolarità è da segnalare un lungo brano che non sembra assolutamente di fede confuciana, bensì ispirato al taoismo o al moismo (dottrina di Mozi, filosofo del V-IV sec. a. C., che preconizzava una società egalitaria e senza conflitti), e riguarda un nodo centrale della filosofia di Confucio: l’atteggiamento dei letterati nei confronti della società e della sua organizzazione. Se i confuciani teorizzavano una società classista, burocratica, politicamente strutturata e regolata, questo brano è fautore di un’organizzazione sociale collettivistica primitiva, senza differenziazioni di classe; non si sa come esso sia finito dentro l’opera, certo è che rispetto agli altri capitoli ha un carattere eversivo, e la sua eco arrivò fino all’epoca moderna tant’è che una sua espressione, Da Tong 大同 (Gande Solidarietà), fu adoperata come parola d’ordine dal Partito Comunista Cinese.
Nel Li Ji si trovano anche contenuti scientifici come i concetti di yin 陰 (semplificato 阴) e yang 陽 (semplificato 阳), le Yue Ling 月令 (Ordinanze Mensili, un calendario agricolo legato ai cicli astronomici, che spiega la complessa panoplia di cerimonie ufficiali stagionali che l’imperatore doveva mettere in atto, circondato dalla sua corte), e argomenti escatologici che riguardano l’anima umana dopo la sua morte: una parte sale verso l’alto, l’altra va verso il basso. E, naturalmente, si parla degli Dei delle Porte.
Questi dei sono due, sempre in coppia; assieme al Dio della Casa, al Dio dei Pozzi, al Dio del Focolare e al Dio della Terra facevano parte delle antiche cinque divinità domestiche a cui si facevano offerte. Come tutti i miti, anche quello sugli Dei delle Porte, nel tempo è stato coniugato in diverse maniere ma, secondo la tradizione canonica, i due erano fratelli e si chiamavano Shentu e Yulü, ed erano stati inviati dal mitico Imperatore Giallo a controllare il mondo degli spiriti. Abitavano su una montagna anch’essa leggendaria, la Montagna della Città del Pesco, la cui vetta era dominata da un albero di pesco veramente fantastico perché i suoi rami coprivano un diametro di tremila leghe. Il compito dei due fratelli era stare a guardia delle porte ed evitare ai fantasmi e agli spiriti cattivi di entrare in casa degli umani durante la notte; essi catturavano queste entità malvage pronte a penetrare tra le mura delle abitazioni e portare scompiglio e guai, malattie e morte comprese, e all’alba le incatenavano con corde di giunco (Phragmites australis) all’albero di pesco finché non arrivava una tigre che divorava i cattivoni. Questa storia spiega perché, soprattutto nei quartieri popolari e nei villaggi agricoli, c’era l’usanza di porre accanto ai battenti delle porte delle case, due statue che rappresentavano questi dei, scolpite in legno di pesco. Shentu e Yulü erano rappresentati potenti e terrificanti, nel modo più utile, insomma, a spaventare gli spiriti cattivi. Attaccati sulle porte, si mettevano dei mazzi di canne e un ramo di pesco, sormontati dall’immagine di una tigre che doveva agire anch’essa come deterrente per gli ospiti indesiderati.
In epoca Tang (618-907), ci fu un’evoluzione delle pratiche di protezione delle porte: le statue furono sostituite da due stampe dei guardiani, ottenute dall’inchiostratura di tavole di legno di pesco su cui erano incisi i due dei. Infatti, tra fra i secoli XVII e VIII successe quello che avvenne per molti personaggi mitici: da leggendari divennero reali, e poi nuovamente favolosi. Tutto derivò da ciò che si raccontava sull’imperatore Taizong, secondo imperatore della dinastia Tang (anni di regno 626-649): stregato e atterrito dai fantasmi che di notte gli gettavano in camera dei pezzi di mattoni e di tegole, era caduto in uno stato di grave prostrazione che lo fece ammalare; due generali dell’esercito, per proteggerlo, avevano allora montato la guardia fuori la porta della camera imperiale, e la pace e la salute erano ritornate. L’imperatore fece dipingere i ritratti dei due valorosi e questi vennero incollati sui battenti della porta; prese quindi anche fra il popolo l’abitudine di ornare le porte di casa con le effigi dei due generali che, poi, da persone vere vennero deificati, a loro furono dedicati templi e rituali celebrativi con offerte, preghiere e il fumo degli incensi. Questa usanza dura ancora soprattutto nelle zone rurali cinesi.
Anche al grandioso pesco della Montagna omonima è legata una leggenda fondatrice. Esso era stato portato sulla cima da un gigante che aveva avuto l’ardire di sfidare il sole a correre ma, sfinito dall’impari gara, era crollato esausto in terra e poi era morto abbandonando la sua canna su cui erano avvinghiati serpenti. La caduta dell’essere mastodontico scatenò un forte terremoto, il suo bastone di giunco, toccando il suolo fece nascere una foresta di peschi. Ed ecco che il pesco venne considerato un albero divino dalle tante virtù: esso fu associato alla fertilità, alla longevità, alla difesa dai demoni, all’immortalità. La forma dei suoi frutti – le pesche cinesi sono leggermente allungate il che richiama la forma del sesso femminile – spiegherebbe, per analogia, le proprietà sopra esposte. E anche gli Immortali della tradizione cinese, vecchissimi ma sempre in forma, camminano appoggiandosi a una canna di legno di pesco, e i preti taoisti nei loro esorcismi utilizzano sempre bastoni dello stesso legno. Quanto alla tigre, una sua statuetta o una sua rappresentazione disegnata, veniva anch’essa posta sulle porte, per fare paura ai fantasmi. E quando, nella seconda metà del I sec. fu portato il buddhismo in Cina, ecco che la tigre fu rimpiazzata dal leone, essendo il leone l’animale protettore del dharma (gli insegnamenti del Buddha riguardo al dovere e alla buona condotta per superare la sofferenza).
Insomma, l’iter creativo degli Dei delle Porte, come spesso successe nella commistione tra il vero e il creduto, seguì la via nota: personaggi mitici Shentu e Yulü furono umanizzati come valorosi generali, e successivamente ancora una volta deificati e, sulle porte, rimpiazzati dalle loro effigi.
Questi due guerrieri attenti a evitare intrusioni malevole nelle abitazioni, si riversarono nel buddhismo con tutta la loro forza e la loro abilità. Infatti, all’ingresso dei templi e dei monasteri buddhisti cinesi si trovano Heng e Ha, due terrificanti guardiani la cui origine leggendaria ha un percorso lungo e tortuoso che vede altri attori della mitologia popolare, fra i quali: il Re Drago, due generali della dinastia Shang, il fondatore e i principi della successiva dinastia Zhou, primi ministri, l’Imperatore del Cielo, funzionari celesti che vegliano su alcune costellazioni, funzionari civili che da quelli celesti ricevono il modello per governare correttamente, aspiranti al funzionariato che devono affrontare gli esami imperiali, e così potremo continuare a lungo mettendo in mezzo una pletora di personaggi cari alla cultura popolare cinese. Ma questo ve lo risparmio perché a un certo punto mi sono perduto anche io nei dedali di queste affollate leggende. È come se esse s’incatenassero l’una all’altra, s’inseguissero con le loro invenzioni, come in una staffetta il cui testimone – personaggio o oggetto – serve a fare partire una storia dietro l’altra: storie che si rincorrono, si raggiungono, si toccano, e ripartono con nuove e stupefacenti sviluppi. Insomma, nella mitologia cinese sembra che niente possa estinguersi, e tutto e tutti restano in campo, trasformati, reinventati, rinati.
Queste storie che ho raccontato e quelle che ho omesso per non trasformare una semplice Pillola in cura da cavallo, hanno massicciamente permeato la letteratura cinese: diversi sono i romanzi, poesie, pièce teatrali, canzoni popolari che nel tempo hanno celebrato gli Dei delle Porte. Senza andare troppo lontano, una delle più importanti opere di Pechino rappresentate nelle regioni conquistate dal Partito Comunista prima della proclamazione della Repubblica Popolare Cinese (1949), e proibita per circa quarant’anni dopo per via della sua trama troppo fantastica e per niente legata alla lotta di classe, è La ragazza dai capelli bianchi (creata nel 1944) in cui l’eroina canta: «Gli Dei delle Porte, gli Dei delle Porte / cavalcano un cavallo rosso; / incollati sulle porte proteggono il focolare. / Gli Dei delle Porte, gli Dei delle Porte, / portano grandi alabarde / i demoni grandi e piccoli non possono entrare!»
Come avrei voluto io questi dei a guardia della mia porta di casa, quand’ero bambino e avevo paura del buio!
Di Isaia Iannaccone*
*Isaia Iannaccone, nato a Napoli, chimico e sinologo, vive a Bruxelles. Membro dell’International Academy of History of Science, è specialista di storia della scienza e della tecnica in Cina, e dei rapporti Europa-Cina tra i secoli XVI e XIX. È autore di numerosi articoli scientifici, di trattati accademici (“Misurare il cielo: l’antica astronomia cinese”, 1991; “Johann Schreck Terrentius: la scienza rinascimentale e lo spirito dell’Accademia dei Lincei nella Cina dei Ming”, 1998; “Storia e Civiltà della Cina: cinque lezioni”,1999), di due guide della Cina per il Touring Club Italiano e di lavori per il teatro e l’opera. Ha esordito nella narrativa con il romanzo storico “L’amico di Galileo” (2006), best seller internazionale assieme al successivo “Il sipario di giada” (2007, 2018), seguiti da “Lo studente e l’ambasciatore” (2015), “Il dio dell’I-Ching” (2017) e “Il quaderno di Verbiest” (2019)