Potremmo disquisire a lungo sui rapporti di forza tra maschi e femmine nella storia della società cinese antica, e non ci stupiremmo nel constatare come questa “lotta dei sessi” si perpetua ancora oggi in Cina così come dappertutto. Nel caso della Cina c’è da mettere in evidenza che, retaggio storico di grande importanza, una società matriarcale e matrilineare esiste ancora. Ci riferiamo all’etnia dei Mosuo…
Una teoria sull’organizzazione sociale dell’antica Cina – per intenderci, dalla fine del neolitico all’unificazione del Primo Imperatore (dal 3000 a. C. circa, al 221 a. C.) -, mette all’onore la donna dandole un posto di primo piano. Infatti, la maggior parte degli storici ci raccontano la Cina antica come una società in cui fino a un certo periodo vigevano il matriarcato e la matrilinearità: la donna deteneva il potere sulla prole e sui beni, e i figli ereditavano la posizione sociale e i beni dalla madre e non dal padre.
Le prove che si possono esibire per confermare l’esistenza del matriarcato in Cina sono tre. La prima risiede nel carattere xing 姓 che significa nome di famiglia; esso è composto da due parti: 女 (donna) + 生 (nascere): ai bambini che nascevano veniva dato il nome della madre (matronimico). Questo carattere, prima in forma arcaica e poi nella scrittura sopra proposta, viene impiegato dalla seconda parte della dinastia Zhou, a partire dal secolo V a. C., e da allora, e per duemila e cinquecento anni indica il cognome delle persone; il fatto che lo si usi ancora è considerato una reminiscenza del matriarcato ancora presente nel subconscio cinese.
Una seconda prova starebbe nell’uso dei colori bianco e rosso. Sin dal loro apparire nei testi più antichi, al primo vengono attribuite influenze negative, ridotte capacità sessuali, la morte, il cordoglio; al rosso, invece, appartengono la potenza creatrice, quella sessuale, la vita e la vitalità, la luce, la felicità. In testi Zhou (circa 1046 – 221 a. C.) si trovano consigli di dipingere le offerte funerarie in rosso per preservarle dalla corruzione del tempo, e poco più tardi appare l’idea di decorare in rosso i regali e gli oggetti usati negli sponsali. Nella pittura erotica cinese, poi, non è raro trovare l’uomo colorato in bianco e la donna in rosso, e nella letteratura alchemica l’uomo è citato come «bianco», e la donna come «rosso». Insomma, la donna è vista come una forza positiva, l’uomo una sua pallida appendice.
Ed ecco la terza prova. I miti e le leggende più antiche danno alla donna poteri magici più potenti che agli uomini, e i manuali sessuali la descrivono come depositaria di tutte le conoscenze relative al sesso, il che ne faceva una iniziatrice per il timido e ignorante (in queste faccende) maschio.
È dai Zhou in poi che la posizione della donna e dell’uomo si capovolgono. La causa è da trovare nelle necessità di una società feudale che fa della permanente guerra fra Stati che si divorano l’un l’altro il comune denominatore. È la forza fisica che entra in gioco, associata all’idea che una gerarchia familiare e sociale riconosciuta, solida e indiscussa renda più forti il clan e l’insieme dei clan che formano i vari Stati Combattenti (dal sec. V a. C., al 221 a. C.). Ci si mette poi il pensiero confuciano a regolare e stabilizzare il sistema. Il maschio è esaltato come guida e capo indiscusso della famiglia, è l’essere forte superiore alla donna, e i famosi cinque rapporti che bisogna rispettare perché lo Stato sia in armonia con l’Universo sono sempre basati sul rispetto che si deve avere per il maschio più anziano o gerarchicamente superiore: il suddito deve rispettare l’imperatore, il figlio il padre, la moglie il marito, il fratello minore il fratello maggiore, l’amico giovane l’amico più anziano.
È questo il periodo nel quale anche un altro concetto permea menti e comportamenti: de 德, la virtù, una parola che alla sua origine indicava il potere magico di una persona. Nei testi Han e successivi (dal III-II sec. a. C.) alla donna veniva attribuito il nüde 女德 che più che significare virtù della donna, era inteso come potere ammaliante della donna; la letteratura cinese ha celebrato costantemente uomini, potenti o no, che si attaccano a una donna non tanto per la sua bellezza o avvenenza, ma per la magia femminile che esprime, e per il carisma che esercita con un magnetico senso di potere. Naturalmente, questo potere ha anche la capacità di spaventare: nel Zuo Zhuan 左轉 (semplificato 左转, Commentario di Zuo, fondamentale documento storico che raccoglie le cronache feudali dal 762 al 468 a. C.) si leggono frasi del genere: «Il de 德 di una giovane ragazza è senza limite; il risentimento di una donna sposata è [dunque] senza limite»; oppure «La donna è una creatura sinistra, capace di pervertire il cuore di un uomo».
Che fare per allontanare il pericolo di una donna troppo intraprendente, e nello stesso tempo mettere al centro della società il maschio? Ancora una volta il confucianesimo ha la soluzione: ricorrere ai riti e ridare centralità al culto degli antenati praticato anche prima di Confucio. Entrambi queste pratiche socialmente importantissime e fondamentali per mantenere la società terrena in armonia con l’Universo, sono celebrate da maschi. I riti, organizzati con una struttura complicata e codificata, sono diretti dai capifamiglia, dai capivillaggio, dai governatori, dall’imperatore, insomma, tutti maschi. Quanto al culto degli antenati, può essere celebrato soltanto dai primogeniti maschi della famiglia.
Va detto che nonostante l’ideologia confuciana abbia martellato le menti cinesi per due millenni e mezzo, mai si è riuscito a eliminare dalla cultura cinese l’immagine materna come fondante sia per la famiglia che per la società. A questo ha contribuito il taoismo con la figura della Grande Madre che nutre non soltanto i figli ma anche il suo partner che durante l’atto sessuale, attraverso la penetrazione, assorbe gli umori ying della donna, ossia si ricarica di energia imbevendosi delle secrezioni vaginali e, in modo del tutto egoistico, trattiene l’eiaculazione per non “sprecare” il suo yang che riserva alla procreazione. Dunque, sesso sì, ma in una visione machista subdolamente mascherata da raffinata pratica sessuale.
Potremmo disquisire a lungo sui rapporti di forza tra maschi e femmine nella storia della società cinese antica, e non ci stupiremmo nel constatare come questa “lotta dei sessi” si perpetua ancora oggi in Cina così come dappertutto. Nel caso della Cina c’è da mettere in evidenza che, retaggio storico di grande importanza, una società matriarcale (alcuni la definiscono matristica perché non c’è alcun dominio della donna sull’uomo) e matrilineare esiste ancora. Mi riferisco all’etnia dei Mosuo 摩梭 , circa 40.000 persone che vivono sui contrafforti dell’Himalaya in villaggi tra lo Yunnan e il Sichuan. Essi sono un sottogruppo della più folta minoranza nazionale dei Naxi 納西 (semplificato 纳西), noti per utilizzare un sistema di scrittura pittografico antico e del tutto differente dai caratteri cinesi, la scrittura daba.
Ebbene, presso i Mosuo, la trasmissione del nome di famiglia e dei beni viene fatto per via materna, non v’è matrimonio né vita coniugale, la sessualità è libera e, a partire dai tredici anni, le ragazze hanno diritto a ricevere quelle che vengono chiamate “visite furtive” (nana sese): ogni giovane ha una sua stanza con un ingresso privato nella quale possono accogliere eventuali amanti anche più di uno a notte, che però devono andare via all’alba; il numero dei partner è libero, si ha cura di evitare rapporti tra consanguinei. Per sapere se una ragazza è disponibile a un incontro notturno, l’usanza vuole che il maschio comunichi il suo desiderio grattando la palma delle mani della donna; è lei che deciderà se accettare o meno l’incontro. Non ci sono obblighi per l’uomo se dai rapporti sessuali nascono figli perché la sola responsabile della cura dei piccoli è la madre coadiuvata dai suoi fratelli, per cui gli zii materni sono le figure maschili di riferimento che entrano in gioco nell’educazione dei bambini.
Se una donna ha un amante preferito, questi può essere ospitato per brevi periodi dalla famiglia di lei in cambio di lavori domestici ma si deve astenere da comportamenti di gelosia se la sua partner riceve anche altri uomini; va detto che il termine “gelosia” non è contemplato nella lingua dei Mosuo. È interessante notare che la grande libertà sessuale fa sì che presso i Mosuo non esista prostituzione; le credenze millenarie decretano che i caratteri ereditari dei bambini dipendano dalle ossa materne, in alcun modo è messo in gioco lo sperma dei maschi che è considerato un fertilizzante alla stessa stregua della pioggia che fa crescere l’erba ma non fondamentale per la trasmissione genetica.
Dalla fondazione e l’avvento della Repubblica Popolare Cinese (1949) è necessaria una dichiarazione di paternità ai fini legali, essa è assunta dal padre biologico della neonata o neonato, oppure da uno zio paterno, ma ciò non inficia minimamente l’organizzazione familiare in cui la madre rimane la depositaria e la responsabile dell’educazione dei figli.
Nonostante la libertà sessuale di cui godono i Mosuo in privato, i loro atteggiamenti in pubblico devono evitare di richiamare atteggiamenti che potrebbero evocare il sesso: per esempio, nelle feste di villaggio maschi e femmine non ballano mai assieme, ed evitano persino di guardare la televisione in compagnia gli uni delle altre per non dovere assistere, in compagnia, a eventuali scene d’amore.
Circa cinquantamila turisti visitano ogni anno i villaggi Mosuo. Speriamo che questi viaggi non siano semplicemente delle gite come allo zoo, ma che sollecitino nei visitatori profonde riflessioni sui ruoli dei maschi e delle femmine nell’ambito della famiglia e della società, e sulle politiche da adottare per l’eguaglianza di genere. L’articolo 48 della Costituzione della Repubblica Popolare Cinese sancisce: «Le donne della Repubblica popolare cinese godono di diritti uguali agli uomini in tutte le sfere della vita, nella vita politica, economica, culturale, sociale, familiare. Lo Stato protegge i diritti e gli interessi delle donne.» A questo assunto della Costituzione, ha fatto da eco polemica la ricercatrice di Harward, Alice Hu che conclude il suo articolo «Metà del cielo ma non ancora uguali. Il Movimento femminista in Cina», in Harvard International Review (vol. 37, n. 3, 2016), affermando: «Se le donne sono la metà del cielo, il governo deve iniziare a fare la sua parte.»
Isaia Iannaccone*
***Isaia Iannaccone, nato a Napoli, chimico e sinologo, vive a Bruxelles. Membro dell’International Academy of History of Science, è specialista di storia della scienza e della tecnica in Cina, e dei rapporti Europa-Cina tra i secoli XVI e XIX. È autore di numerosi articoli scientifici, di trattati accademici (“Misurare il cielo: l’antica astronomia cinese”, 1991; “Johann Schreck Terrentius: la scienza rinascimentale e lo spirito dell’Accademia dei Lincei nella Cina dei Ming”, 1998; “Storia e Civiltà della Cina: cinque lezioni”,1999), di due guide della Cina per il Touring Club Italiano e di lavori per il teatro e l’opera. Ha esordito nella narrativa con il romanzo storico “L’amico di Galileo” (2006), best seller internazionale assieme al successivo “Il sipario di giada” (2007, 2018), seguiti da “Lo studente e l’ambasciatore” (2015), “Il dio dell’I-Ching” (2017) e “Il quaderno di Verbiest” (2019)