Un verso di una canzone del compositore e poeta Franco Battiato ha fornito il tema di questa Pillola; l’argomento, al quale non avevo proprio pensato, mi è stato suggerito da Giosella Iannaccone, che oltre ad essere musicista e musicoterapeuta, è soprattutto la mia gemella. La ringrazio.
Battiato ha costellato i suoi testi di citazioni che hanno la stessa funzione delle pennellate evocatrici di atmosfere su un quadro impressionista; tra esse, appare il verso: «Gesuiti euclidei, vestiti come dei bonzi per entrare a Corte degli imperatori della dinastia dei Ming.» Ma chi diavolo erano questi gesuiti euclidei? Perché vestivano come dei bonzi? E per quale motivo volevano entrare alla Corte imperiale cinese?
Presto detto: Battiato si riferisce ai missionari della Compagnia di Gesù che giunsero in Cina dalla fine del Cinquecento fino alla seconda metà del Settecento con lo scopo di evangelizzarla.
Sono d’accordo, fatti non fummo a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza, ma a quei tempi l’idea di affrontare un viaggio terrificante come era quello tra l’Europa e l’Estremo Oriente (circa sei mesi di navigazione con ogni sorta di pericoli) poteva venire solo a chi non aveva tutte le rotelle a posto, o perseguiva grandi interessi (mercanti e conquistatori) oppure a chi era convinto di avere la Verità in tasca e l’urgenza dogmatica di rivelarla e imporla ad altre popolazioni (i missionari, appunto). La penetrazione dei Gesuiti in Cina, però, fu pacifica, non avvenne sul filo dei cannoni e delle stragi etniche come in altri continenti (per esempio in America Centrale e in America Latina), anzi fu sempre controllata dai Cinesi che decisero tempi e modi per accogliere (e a volte perseguitare) i rappresentanti di una religione che metteva loro paura perché era centrata sull’adorazione di un uomo agonizzante sulla croce, cosa ritenuta di malaugurio.
Non possiamo citare tutti i missionari dell’epopea gesuita in Cina, ma colui che è doveroso menzionare fu il fondatore della missione: Matteo Ricci (Macerata 1552 – Pechino 1610). Sconosciuto ai nostri libri di Storia, egli è invece ben noto agli studenti cinesi con il nome sinizzato di Li Madou 利玛窦 (Li richiama la prima sillaba del suo cognome, Madou sono i caratteri che hanno una pronuncia simile a “Matteo”), personaggio su cui, nel 1979, ai maturandi del Paese di Mezzo fu dato uno dei temi dell’esame di Maturità. Ricci godette di molto rispetto in Cina, tanto che alla sua morte fu Wanli, imperatore dei Ming, a dettarne l’epitaffio da incidere sulla stele tombale.
In verità, all’inizio, Ricci non godé sempre di riguardo da parte dei Cinesi. Quando nel 1583 ebbe l’autorizzazione a entrare nella Cina del sud assieme al confratello Michele Ruggeri (poi ritornato in Italia) e fondarvi la missione, fu oggetto di scherno da parte dei locali, addirittura fu preso a sassate, ed ebbe grandi difficoltà a trovare un’abitazione e ad avere i lasciapassare per risalire a nord e raggiungere Pechino dove avrebbe voluto incontrare l’imperatore. Il fatto è che egli, prete, volle presentarsi come tale, e quindi pensò di abbigliarsi come un bonzo («Vestiti come dei bonzi per entrare a Corte degli imperatori della dinastia dei Ming»). Però, non aveva fatto i conti con la mentalità cinese che, se al primo rango della scala sociale metteva i letterati, all’ultimo poneva i monaci, disprezzati perché vivevano di elemosina e, praticando la castità, non avevano discendenti che avrebbero potuto praticare il culto degli antenati (vera religione del Paese di Mezzo). Negli anni che impiegò per avere i permessi e risalire al nord ed entrare in Pechino (ci arrivò nel 1600) , Ricci, che già parlava la lingua cinese per averla studiata a Macao, la rafforzò ancora di più, e riuscì a entrare in stretto contatto con alcuni cinesi colti, aperti e sensibili, a convincerli, a battezzarli, a farne dei preziosi collaboratori, e mise in atto una nuova strategia di penetrazione: adattarsi ai costumi cinesi, ricercare quale potesse essere il punto di contatto raggiunto il quale avrebbe potuto divulgare la propria fede, non mostrarsi contrario ai valori tradizionali della cultura locale come il confucianesimo, accettare il culto degli antenati. Insomma, farsi cinese fra i Cinesi.
Ricci aveva dunque capito che vestirsi da bonzo non era conveniente; così, per prima cosa cambiò il suo abito e cominciò a presentarsi con i panni del letterato e a frequentare non gli umili ma i piani alti della società: mandarini, governatori, giudici e persone “che contano”. E per dimostrare la sua sapienza, con l’aiuto dei propri collaboratori, iniziò a presentare oggetti scientifici (astrolabi, prismi, quadranti, orologi meccanici) e a pubblicare in lingua cinese opere che lo connotassero come erudito fra le quali un trattato sull’amicizia e un manuale di mnemotecnica che colpirono molto favorevolmente i letterati con cui era in rapporto. Quanto a individuare il punto di contatto per entrare nelle grazie dei Cinesi, Ricci si dimostrò un genio.
Il suo bagaglio scientifico era quello acquisito al Collegio Romano da Cristoforo Clavio (uno dei più grandi matematici del Rinascimento e ideatore del calendario gregoriano che usiamo ancora oggi). Ricci se ne intendeva abbastanza, dunque, di matematica e astronomia e, pur non essendo specificamente né matematico né astronomo, aveva capito che la carta vincente per la sua missione in Cina poteva essere la correzione del calendario cinese che vistosamente non riusciva a prevedere con esattezze i fenomeni celesti (eclissi, lunazioni, congiunzioni, inizi di stagione, etc.). Non sembri secondaria la questione del calendario: l’imperatore era il Figlio del Cielo, e come tale, ogni anno, doveva promulgare un calendario con le previsioni stagionali dei cicli coltivatori, delle eclissi e degli altri fenomeni celesti; se le previsioni erano sbagliate, l’imperatore ne perdeva di autorità. Ecco perché, conoscendo i propri limiti scientifici, Matteo Ricci più volte inviò rapporti e missive per chiedere ai superiori della Compagnia di Gesù «…qualche buon matematico specialmente astrologo». La sua convinzione era che, una volta corretto il calendario, il prestigio della missione sarebbe accresciuto a Corte tanto da far accettare anche la religione cattolica, e se i governanti si fossero convertiti anche il popolo lo avrebbe fatto. Sarebbe stato un bel colpo che avrebbe non soltanto permesso di allargare la platea mondiale dei credenti, ma anche favorito le sorti della Compagnia di Gesù che, anche se fondata nel 1540, già cominciava ad avere numerosi nemici proprio all’interno della stessa Chiesa.
Non è questa la sede per dare i dettagli delle pubblicazioni in lingua cinese del Ricci, mi limito a farne un bilancio sommario. Nel campo religioso, egli fu autore di alcune opere che introducevano i Comandamenti e i principi del cristianesimo. Quanto alla scienza, egli – gesuita euclideo – introdusse l’algebra, la geometria euclidea (traducendo i in lingua cinese i libri dal II al VII degli Elementi di Euclide) e la sua applicazione ai moti planetari e alla topografia, la concezione della Terra sferica divisa in meridiani e paralleli (presentò il mondo allora conosciuto dagli Occidentali, con carte geografiche nelle quali furono inventati in cinese toponimi delle terre sconosciute ai Cinesi), avviò la riforma del calendario (la cui correzione, però, cominciò ufficialmente nel 1629), importò le tecniche per fabbricare la sfera, orologi, globi, quadranti, sestanti, presentò il clavicordio a Corte per gli eunuchi che volevano apprendere la musica occidentale, e compose le musiche per otto sue poesie “moraleggianti” che ebbero molto successo come canzoni. Ma diciamola tutta: figlio del suo tempo, Ricci fu anche responsabile di “trasmissioni imperfette” giacché propagandò il sistema solare con lo schema aristotelico-tolemaico delle sfere cristalline, mentre i Cinesi già conoscevano i concetti di “vuoto” e “infinito”. Matteo Ricci era militante di una religione dogmatica, e per questo lo si potrebbe accusare di avere vissuto l’esperienza cinese con preconcetto, di avere sottovalutato l’esperienza plurimillenaria delle osservazioni astronomiche cinesi, di non avere tenuto nel debito conto le giuste intuizioni e le conoscenze empiriche autoctone, di avere trasmesso alla Cina concezioni “imperfette” o “inesatte”, ma è pur vero che egli – gesuita euclideo – rappresentò in modo adeguato e alto la cultura europea preilluministica.
Ancora due parole da aggiungere a queste quattro chiacchiere su Matteo Ricci. Innanzitutto bisogna citare almeno un paio dei suoi collaboratori più importanti, i letterati Xu Guangqi (battezzato con il nome di Paolo), e Li Zhizao (battezzato come Leone); intellettuali colti, raffinati e curiosi che ancora più di Ricci (che lo faceva per “lavoro”) ebbero l’anelito di conoscere, approfondire e mettere in valore una cultura molto diversa dalla loro; senza l’aiuto di questi uomini, il missionario non avrebbe potuto tradurre i libri di Euclide né scrivere trattati per i Cinesi, o inventare nuovi nomi in lingua cinese da attribuire a concetti (religiosi, filosofici, scientifici), luoghi geografici, nomi di personalità occidentali. Per fare un esempio fra i tanti, il termine “geometria” (jihe 几何) ancora oggi utilizzato, scaturì dalla collaborazione tra il gesuita e Xu Guangqi.
Ricci fu seppellito con tutti gli onori nel cimitero di Zhalan che in seguito accolse le spoglie di gesuiti delle epoche successive. Il cimitero fu profanato e vandalizzato durante la rivolta dei Boxer (1900), e ora, nel verde, rimangono i monumenti funerari di Ricci, e dei due primi gesuiti direttori dell’Osservatorio Astronomico Imperiale (nel tempo furono una decina), il tedesco Adam Shall von Bell (1592 – 1666) e il fiammingo Ferdinand Verbiest (1623 – 1688) – anch’essi euclidei, ovviamente – nonché le stele funerarie di molti missionari morti in terra cinese (nel Seicento si contarono 250 gesuiti operanti in Cina); fra essi voglio citare lo scienziato tedesco Johann Schreck detto Terrentius (1576 – 1630), matematico, astronomo, medico, botanico, che fu amico di Galileo e, come Galileo, fu membro dell’allora neonata Accademia dei Lincei, oggi la più prestigiosa delle accademie scientifiche italiane, di cui molti membri sono premi Nobel.
Attualmente, il cimitero, protetto come patrimonio culturale dello Stato, è all’interno della cinta di una scuola per i quadri del Partito Comunista Cinese, e per visitarlo bisogna chiedere un’autorizzazione. Ne vale la pena.
Di Isaia Iannaccone*
**Isaia Iannaccone, nato a Napoli, chimico e sinologo, vive a Bruxelles. Membro dell’International Academy of History of Science, è specialista di storia della scienza e della tecnica in Cina, e dei rapporti Europa-Cina tra i secoli XVI e XIX. È autore di numerosi articoli scientifici, di trattati accademici (“Misurare il cielo: l’antica astronomia cinese”, 1991; “Johann Schreck Terrentius: la scienza rinascimentale e lo spirito dell’Accademia dei Lincei nella Cina dei Ming”, 1998; “Storia e Civiltà della Cina: cinque lezioni”,1999), di due guide della Cina per il Touring Club Italiano e di lavori per il teatro e l’opera. Ha esordito nella narrativa con il romanzo storico “L’amico di Galileo” (2006), best seller internazionale assieme al successivo “Il sipario di giada” (2007, 2018), seguiti da “Lo studente e l’ambasciatore” (2015), “Il dio dell’I-Ching” (2017) e “Il quaderno di Verbiest” (2019)