Con i suoi circa un miliardo e quattrocentomila abitanti, la Cina è la nazione più affollata del Pianeta; con questo dato ci aspetteremmo di trovare nella vasta popolazione cinese un elevato numero di cognomi differenti, invece essa è fra quei Paesi che hanno la più bassa diversità di nomi di famiglia. In altre parole, frequentando cinesi, vi capiterà sicuramente di incontrarne molti, anzi moltissimi, che, pur non appartenendo allo stesso ceppo familiare, portano il medesimo cognome. Questa osservazione non è di oggi: nella tradizione letteraria cinese non è raro imbattersi nell’espressione «le cento famiglie» che indicava l’insieme della popolazione dell’impero sottolineando che, in definitiva, bastava un numero ridotto di cognomi per classificare tutti.
Il primo testo che mise in evidenza la penuria di nomi di famiglia in Cina risale a circa mille anni fa. Fu infatti durante il primo periodo della dinastia Song (960-1279) che, da Autore incerto, venne pubblicato il Bai Jia Xing 百家姓 (I cento nomi di famiglia); esso non è uno studio scientifico ma un poema in rime composto con i caratteri dei 504 cognomi allora censiti fra le famiglie più importanti a cominciare da quella imperiale e quelle della nobiltà, di cui 444 formati da un solo carattere e 60 di due caratteri. Facile da memorizzare per via delle rime, il testo, come una canzone, veniva fatto apprendere ai bambini che così imparavano a conoscere e a rispettare le famiglie in vista e, allo stesso tempo, prendevano confidenza con la pronuncia tonale dei caratteri; è per questo motivo che esso appare fra i tre classici della letteratura infantile dell’antica Cina.
Lo studio più aggiornato sui cognomi cinesi è quello del 2006 eseguito dal ricercatore Yuan Yida del Dipartimento di Genetica e della Biologia dello Sviluppo dell’Accademia Cinese delle Scienze. Il suo scopo era quello di mettere in relazione l’ereditarietà delle malattie genetiche con l’appartenenza a un determinato gruppo familiare. Su un campione di 300 milioni di persone appartenenti a tutto il Paese, egli ha censito soltanto 4100 cognomi e ha dimostrato che due persone che lo hanno uguale non necessariamente appartengono alla medesima famiglia. Secondo Yuan Yida, il cognome più utilizzato in Cina è Li 李, seguito da Wang 王 e poi da Zhang 张 ; i primi cento cognomi della lista di Yuan sono utilizzati dall’86% della popolazione. Per fare un confronto, in Italia (60 milioni di abitanti), di cognomi ce ne sono circa trecentocinquantamila…
Attualmente è in studio la possibilità di dotare i nuovi nati del doppio cognome del padre e della madre in una delle combinazioni possibili: se la mamma è Zhang e il papà è Li, oltre a scegliere uno dei due come oggi è già autorizzato, si potrebbe anche optare per le combinazioni Zhangli o Lizhang. Questo escamotage farebbe aumentare il numero dei cognomi cinesi a più di un milione in più e, secondo il Ministero degli Affari Civili, promuoverebbe anche l’uguaglianza fra i sessi, inoltre nel caso di matrimoni fra individui di etnie differenti, proteggerebbe la conservazione dell’identità culturale.
Se in Cina ci sono pochi cognomi rispetto al numero di abitanti, in compenso di nomi propri ce ne sono una quantità enorme. La scelta di questi nomi viene fatta dopo attenti calcoli e ragionamenti che riguardano la data e l’ora di nascita, nonché varie considerazioni astrali, la mancanza o sovrabbondanza dei quattro elementi nel neonato (legno, metallo, acqua e fuoco), e le aspirazioni che i genitori nutrono nei confronti di esso. Ricordando che il culto degli antenati è la vera e più antica forma di religione cinese, a differenza che in Occidente in Cina non si danno ai bambini i nomi dei nonni perché gli avi sono tenuti in così alta considerazione che devono essere solo fonte di ispirazione per vivere in modo virtuoso, e nessuno può aspirare, o osare, di chiamarsi come loro: quella che da noi è un’attenzione e un segno di affetto per i nonni e di continuità familiare, in Cina è vista come una mancanza di riguardo se non un vero e proprio affronto, un peccato di immodestia.
Siccome i genitori cinesi sono convinti che un nome proprio ben scelto aiuterà il bimbo a riuscire nella vita, soprattutto ai tempi attuali dove la competizione sociale inizia dall’asilo, per individuare i nomi da dare ai bambini si può ricorrere a specialisti che hanno non solo le idee chiare in proposito ma anche un tariffario ufficiale. Inoltre, ci si può rivolgere a un centinaio di siti internet che aiutano nella scelta. Il più popolare è Qimington 起名痛 (Esperto dei nomi propri) che risolve il problema con qualche clic e un tariffario che va dai 400 ai 10.000 yuan, ossia tra i 50 e i 1.400 €; la fondatrice del sito afferma che il nome proprio è visto come un marchio commerciale, e che quindi se ben scelto aiuterà il bimbo a riuscire nella vita. Tra i nomi femminili i tradizionalisti spesso privilegiano quelli legati all’avvenenza e all’eleganza come Lan (Orchidea), Lin (Magnifica giada), Haimei (Sorellina del mare); per i ragazzi l’accento viene messo sulle caratteristiche cosiddette “virili” – ad esempio Qiang (Forte), Xiong (Potente) -, ma non vengono trascurati attributi relativi all’affidabilità, all’aspetto fisico, al successo negli affari etc., come, ad esempio, Lian (Salice, Grazioso), Jin (Oro), etc.
Oggi, con la lingua inglese imperante, sempre più spesso i giovani cinesi adottano un nome occidentale; anche per scegliere questo esistono dei siti che aiutano; il più frequentato è il BestEnglishName.com che fattura 248 yuan (33€) per mezz’ora di consultazione. A parte i nomi propri presi da occidentali che hanno avuto successo (cantanti, attori, imprenditori, etc.), spesso i richiedenti vogliono che la scelta sia in linea con la tradizione; così, ad esempio, se il neonato ha carenza dell’elemento acqua, potrà chiamarsi Brook (ruscello), se poi oltre all’acqua avrà penuria dell’elemento legno, ecco che il suo nome in inglese potrebbe essere Lindsay (tiglio sulle rive dell’acqua)…
Una complicazione tutta particolare esisteva quando bisognava dare il nome all’imperatore. Oltre a un nome di nascita – che era vietato pronunciare pena l’accusa di lesa maestà – l’imperatore riceveva anche il nome dell’epoca in cui regnava (con cui, in genere, gli imperatori sono appellati nei libri di Storia), un nome “di tempio” da usare nei riti dedicati agli antenati ancestrali, e un nome postumo. I nomi postumi erano attribuiti dagli storici di corte e dovevano essere elogiativi e indicativi dei tratti caratteriali del sovrano e della sua opera di padre della nazione: celebravano, cioè, le virtù dell’imperatore («Giusto», «Compassionevole») o la sua azione di governo («Rispettabile», «Luminoso», «Attento ai bisogni del popolo»), oppure ricordavano se aveva espanso l’impero («Esploratore»), o se aveva avuto vita corta («Scomparso prematuramente») oppure se era tendente alla tristezza («Da compatire»), etc.
Per il sinologo, districarsi con i nomi imperiali sui documenti storici si rivela a volte complicato; l’accumulo di differenti nomi per uno stesso imperatore diviene a volte un rompicapo: ad esempio, i nomi postumi degli imperatori della dinastia Tang (618-907) sono formati da diciassette o diciotto caratteri, quelli della dinastia Qing (1644-1911) da trentuno caratteri. Per dirne uno, il nome postumo dell’imperatore Shunzhi (1638-1661) è Daqing shizu titian longyunding tongjian ji yingrui qinwen xianwu da dehonggong zhirenchun xiaozhang huangdi shilu 大淸世祖體天隆運定統建極英睿欽文顯武大德弘功至仁純孝章皇帝實錄 : Grande Dinastia Qing, Iscritto come Antenato, Imperatore dell’Ordine, che Osserva i Riti con Solenne Destino, Unificatore Perspicace ed Estremamente Talentuoso, Ammiratore delle Arti, Spirito Manifesto con Grande Virtù e Immensa Riuscita, attento all’Umanità e al Puro Rispetto Filiale. Uff!
In ogni modo, che si fosse chiamato Wudi, Taizong, Kubilai, Kangxi o Qianlong, o come volevano gli storici e divinatori di corte, in ogni epoca l’imperatore era comunque, per i Cinesi, un drago. Anzi, era il Drago. E sedeva su un trono chiamato trono del Drago, e sui suoi abiti di seta preziosa su cui dominava il giallo, erano ricamati draghi di ogni dimensione, così come draghi erano istoriati sulle ceramiche pregiate che usava per mangiare e su tutti gli oggetti con cui entrava in contatto. Il drago tradizionale cinese ha l’aspetto di un lungo serpente ricoperto di scaglie come quelle delle carpe, la testa è simile a quella del cammello, gli occhi demoniaci, i barbigli si agitano al vento, le zampe sono da tigre e le unghie rapaci da aquila, non ha le ali ma vola agitando la cresta che sormonta il cranio e il corpo; spesso ha fra le zampe una perla che simboleggia il tamburo del tuono, fenomeno meteorologico delle piogge primaverili portatrici di vita dopo il gelo invernale.
L’associazione imperatore-drago potrebbe proprio derivare dal fatto che in primavera, quando le nevi si scioglievano, i fiumi esondavano fertilizzando i campi con il limo, la natura rinasceva, le coltivazioni vivevano il loro momento più propizio, e nei corsi d’acqua apparivano gli alligatori (Alligator sinensis) che durante l’inverno si erano rintanati. Questi animali dalla morfologia così caratteristica (potremmo dire draghesca), dunque, vennero messi in relazione con la stagione feconda cioè con il benessere e la potenza, e mitizzati. E chi, con tante spose, concubine e figli era il più potente fecondatore dell’impero? Chi amava il popolo al punto da dedicare la propria cita a volerne la sua prosperità? Diamine, l’imperatore!
Ecco, a questo punto diciamola alla Giorgio Gaber: nessun imperatore si è mai chiamato Cerutti Gino ma lo stesso dicevan ch’era un drago…
Di Isaia Iannaccone*
*Isaia Iannaccone, nato a Napoli, chimico e sinologo, vive a Bruxelles. Membro dell’International Academy of History of Science, è specialista di storia della scienza e della tecnica in Cina, e dei rapporti Europa-Cina tra i secoli XVI e XIX. È autore di numerosi articoli scientifici, di trattati accademici (“Misurare il cielo: l’antica astronomia cinese”, 1991; “Johann Schreck Terrentius: la scienza rinascimentale e lo spirito dell’Accademia dei Lincei nella Cina dei Ming”, 1998; “Storia e Civiltà della Cina: cinque lezioni”,1999), di due guide della Cina per il Touring Club Italiano e di lavori per il teatro e l’opera. Ha esordito nella narrativa con il romanzo storico “L’amico di Galileo” (2006), best seller internazionale assieme al successivo “Il sipario di giada” (2007, 2018), seguiti da “Lo studente e l’ambasciatore” (2015), “Il dio dell’I-Ching” (2017) e “Il quaderno di Verbiest” (2019)