Taiwan è un’isola tropicale stupenda.
La sua capitale, Taipei, è moderna, dinamica, possiede musei, biblioteche, centri culturali, studi televisivi e cinematografici, gallerie d’arte, teatri sperimentali e ufficiali, accademie, scuole, università, centri di ricerca e tutto quello che serve per fare cultura al massimo livello. È a Taipei che nel 2004 venne eretto il Taipei 101, un grattacielo a forma di canna di bambù, alto 510 m, che fu fino al 2010 il più alto del mondo. Se volete avere un’idea della città, basta andare al 101, prendere un ascensore, e in 45 secondi siete fra le nuvole a stupirvi dell’estensione dell’abitato e della sua complessità.
Quando ritornate con i piedi per terra, fate un salto al Chiang Kai-sheck Memorial, un parco in centro città dominato da un pagodone dal tetto blu al cui interno svetta la gigantesca statua di colui che nel 1949 fondò la Repubblica di Cina (Taiwan) dopo avere perso la guerra civile in Cina continentale dominata dal Partito Comunista e da Mao Zedong. Nella verde area del Memorial sono due grandissimi teatri in architettura tradizionale cinese, uno dedicato all’arte scenica, l’altro alla musica, in cui si esibiscono i grandi interpreti mondiali, sempre pieni di un pubblico giovane, non convenzionale e assetato di novità. E alla sera, nell’aria tiepida, sulla spianata volano gli aquiloni tenuti dai bambini, gli anziani si radunano a ballare al suono di musiche diffuse da radio portatili, negli angoli più tranquilli vecchi attori dell’Opera di Pechino declamano scene accompagnati da anziani strumentisti della musica tradizionale cinese. E vicino ai teatri danzano i giovani delle minoranze etniche d’origine austronesiana, esibendo orgogliosamente i propri colorati costumi tradizionali; quando l’esibizione è terminata, si rivestono con jeans, sneaker e T-shirt alla moda.
Vi racconto tutto ciò con cognizione di causa perché (tanto) tempo fa avevo un ufficio al Center for Chinese Studies nella National Library, proprio di fronte al Memorial, e ogni giorno, per mesi, potei gustare la frenesia vitale che si respirava in quel luogo e in tutta la città.
Vi giuro che non sono stato sponsorizzato da nessuno per avervi fatto questa descrizione da dépliant di agenzia di viaggio. Il fatto è che quando penso a Taipei e a Taiwan, o quando ci ricapito, resto ancora affascinato dall’aria di rinnovamento e di novità che sempre si respira.
Ma l’isola non fu non fu sempre così. In effetti, fino alla dinastia Ming (1368-1644), essa era praticamente abbandonata nelle mani dei pirati giapponesi che vi facevano scalo dopo le razzie effettuate sulle coste cinesi; gli imperatori Ming la consideravano soltanto un dominio di caccia su cui avventurarsi sporadicamente ma mai nessuno si occupò di fondarvi un’amministrazione e governarla per fare avanzare il livello di vita degli aborigeni che l’abitavano.
Nel 1542, sbarcarono i Portoghesi; colpiti dalla flora lussureggiante e dall’incanto del mare, delle spiagge e delle rocce a strapiombo sull’acqua blu, non trovarono altro nome per l’isola che Formosa (Bella). Nel 1626, una spedizione della Compagnia delle Indie Orientali fondò una missione cristiana a Jilong nel nord dell’isola, e cominciò così la colonizzazione da parte degli Olandesi che, oltre a stimolare l’immigrazione dei connazionali incoraggiarono anche quella dei cinesi del continente al fine di reclutare contadini che mettessero a coltura le fertili pianure e valli dell’isola. Come tutte le colonizzazioni, anche quella di Taiwan andò a detrimento delle popolazioni autoctone: gli aborigeni che la abitavano vennero maltrattati, sfruttati, schiacciati. E così, anche se tardivamente, iniziò la rivolta…
Chi si ribellò alla penetrazione olandese fu un personaggio entrato nella leggenda: Zheng Chenggong 郑成功 (1624 – 1662), conosciuto in Occidente con il nome di Coxinga.
Coxinga, chi era costui?
Oggi, un personaggio come lui lo definiremmo “metà pirata, metà artista” per le sue capacità e per il suo carisma. In effetti, pirata fu suo padre, un esperto uomo di mare e mercante; nato nel Fujian, provincia del sud della Cina, in uno dei suoi viaggi in Giappone, conobbe una giovane giapponese, Tagawa Matsu, da cui ebbe un bambino, il nostro Zheng Chenggong. Il piccolo venne allevato dalla madre fino ai suoi sette anni; poi, si racconta, il padre lo riportò in Cina per farlo studiare al fine do passare gli esami imperiali e diventare funzionario.
Nel 1644 la caduta della dinastia Ming e l’avvento della nuova dinastia Qing di origine mancese, scatenò nel sud della Cina la resistenza del principe Tang dei Ming; Zheng si schierò subito dalla sua parte, mise a disposizione la flotta mercantile di famiglia e, per l’impegno generoso che profuse al servizio del principe, fu addirittura insignito della possibilità di usare “Ming” nel proprio nome. Il suo coraggio e la sua devozione alla causa furono talmente apprezzati dalla popolazione ancora fedele alla dinastia cinese, che gli venne attribuito il soprannome di “Grande Padre della Nazione” (Guo Xingye 国姓爷 che gli Occidentali pronunciarono Coxinga). Nel 1646 il principe Tang morì; lo sostituì il principe Gui al fianco del quale Coxinga scatenò le sue truppe con assalti e razzie sulle coste cinesi mettendo in seria difficoltà i difensori della nuova dinastia. Aristocratici e possidenti cinesi fedeli ai Ming appoggiarono e finanziarono le sue truppe. Perseguendo l’ambizioso progetto della riconquista, nel 1659 risalì il fiume Yangzi riuscendo ad arrivare fino a Nanchino dove, però, fu respinto. Si rese allora conto della necessità di avere una base solida e stabile per organizzare la sua guerra, così decise di conquistare Taiwan cacciandone gli Olandesi, e farne la sua roccaforte. Il 30 aprile 1661 – data celebrata dalla tradizione taiwanese – con venticinquemila uomini in armi fra cui molti aborigeni in rivolta, assediò e fece capitolare Forte Zeelandia, il caposaldo mercantile occidentale fondato a Tainan nel sud di Taiwan. Agli olandesi non restò che arrendersi e accettare un trattato di pace che li espulse dall’isola. Dopo avere fondato un nuovo regno tutto suo, un anno dopo, il 23 giugno del 1662, Koxinga morì improvvisamente.
Ecco, per sommi capi, tratteggiata la vita e le prodezze di un eroe nazionale. A lui sono dedicati racconti e leggende, stele, statue, templi che ancora testimoniano la sua popolarità in Cina, Giappone Taiwan. L’indomito e leale difensore del Paese dai barbari Manciù, il condottiero senza macchia e senza paura, lo stratega che ha vinto i colonizzatori occidentali riveste un ruolo di primo piano nei libri di Storia e nell’immaginario collettivo cinesi. I miti permeano le verità documentarie: un aneddoto narra che la sua nascita – come quella di Cristo – sarebbe stata annunciata da una luce in cielo (stessa leggenda si narra per il fondatore della dinastia Ming); le sue vittorie sul mare sarebbero state favorite dalla protezione di Mazu, Antenata Madre, dea che era molto venerata nel sud della Cina…
In realtà, quello che concretamente rimane nell’epica narrazione della vita di Coxinga è il mistero. I pochi documenti occidentali (fonti olandesi, spagnole e dei missionari) lo descrivono come un feroce bandito, un pirata sanguinario, un despota nei confronti degli aborigeni taiwanesi. Un senza-dio, insomma.
Non abbiamo invece documenti orientali probanti. A parte ciò che la tradizione tramanda, nulla si sa di certo sulla sua infanzia in Giappone, poco sui suoi studi per funzionario, niente sulla sua morte se non supposizioni. C’è poi chi lo descrive come un pirata senza scrupoli, e altri come un lealista integro e affidabile, e testimonianze che alternano una descrizione di despota per le popolazioni aborigene taiwanesi, o di loro difensore dai colonialisti (“capitalisti”, come ebbe ad affermare la retorica comunista che si appropriò dell’eroe). Insomma, come abbia fatto Coxinga a muovere migliaia di uomini per perorare una causa che sembrava persa in partenza (l’esercito e la cavalleria dei Qing costituivano a quei tempi la macchina bellica più sofisticata dei Paesi dell’Estremo Oriente), a salire la scala sociale fino ai vertici, a espellere gli agguerriti Olandesi forti di armi da fuoco molto efficaci, resta ancora avvolto dalla leggenda.
Il nome di Coxinga mi ricorda quello del robot gigante Mazinga, l’eroe dei manga e video giapponesi degli anni Settanta che combatteva le forze del Male. Con la sua vita avventurosa che si racconta essere volta a perseguire solamente grandi, giusti e sinceri obiettivi politici e sociali, Coxinga mi fa pensare anche agli obiettivi promessi da certi esponenti politici italiani. Alcuni di essi – forti di una vittoria elettorale per me spiegabile soltanto per l’ignoranza o l’annebbiamento della coscienza di chi li ha votati – armati di una preparazione del tutto inadeguata alle responsabilità di governo, e fondamentalmente gonfi e tronfi non si sa per quali meriti, ebbero a festeggiare una loro vittoria parlamentare affermando con belluine urla di gioia che avevano (pensate!) abolito la povertà.
Ora, noi io non so se Coxinga abbia abolito la povertà nel breve periodo che governò l’isola Bella, non posso saperlo, mi mancano i documenti per affermarlo e comunque ne dubito fortemente. Oggi, invece, coloro che sostengono di avere raggiunto questo obiettivo, devono essere molto prudenti prima di ripetere simili castronerie per allocchi: grazie al giornalismo di inchiesta, i documenti contemporanei sono facili da trovare sia su carta stampata che in video, e sono questi che li inchiodano alle loro sciocchezze.
Di Isaia Iannaccone*
*Isaia Iannaccone, nato a Napoli, chimico e sinologo, vive a Bruxelles. Membro dell’International Academy of History of Science, è specialista di storia della scienza e della tecnica in Cina, e dei rapporti Europa-Cina tra i secoli XVI e XIX. È autore di numerosi articoli scientifici, di trattati accademici (“Misurare il cielo: l’antica astronomia cinese”, 1991; “Johann Schreck Terrentius: la scienza rinascimentale e lo spirito dell’Accademia dei Lincei nella Cina dei Ming”, 1998; “Storia e Civiltà della Cina: cinque lezioni”,1999), di due guide della Cina per il Touring Club Italiano e di lavori per il teatro e l’opera. Ha esordito nella narrativa con il romanzo storico “L’amico di Galileo” (2006), best seller internazionale assieme al successivo “Il sipario di giada” (2007, 2018), seguiti da “Lo studente e l’ambasciatore” (2015), “Il dio dell’I-Ching” (2017) e “Il quaderno di Verbiest” (2019)