Tra il 1611 e il 1613 Galileo Galilei e il gesuita tedesco Cristoph Scheiner si contesero la scoperta delle macchie solari. Il tutto nonostante, in Cina, la più antica menzione di osservazione delle macchie solari è in un brano che risale al secolo IX a. C., appartenente allo Yijing
Sapete? Quelle diatribe che si scatenano quando uno scienziato esige il riconoscimento di paternità per una scoperta o un’invenzione, dando la patente di copione a tutti gli altri che rivendicano la stessa cosa? La storia delle scienze pullula di contese fra persone che sembravano mediamente tranquille e miti e che passavano l’esistenza fra carte, calcoli, laboratori, magari con gli occhi e gli strumenti incollati a cieli stellati o ad altri fenomeni con l’ambizione di capire, spiegare e anche prevedere, ma che a un certo punto dichiarano guerra a oltranza a chiunque si è occupato del medesimo studio. Altro che mitezza!
Per dirne qualcuna, mi vengono in mente: la scoperta dell’Ossigeno (di Joseph Priestley, di Carl Wilhelm Scheele oppure di Antoine Laurent Lavoisier?); la teoria dell’evoluzione (Charles Darwin, Alfred Russel Wallace o Patrick Matthew?); la regola per risolvere le equazioni cubiche (Niccolò Tartaglia o Gerolamo Cardano?); la predizione dell’esistenza del pianeta Nettuno (Urbain Le Verrier? John Couch Adams?); l’invenzione del telefono (Johann Philipp Reis, Antonio Meucci, Alexander Graham Bell oppure Elisha Gray?). Potrei continuare a lungo ma mi fermo alla controversia che dal 1983, per venticinque anni oppose il duo Luc Montagnier-François Barré Sinoussi all’americano Robert Gallo per chi avesse scoperto il virus dell’AIDS, e che si risolse nel 2008 con l’assegnazione del Premio Nobel ai ricercatori francesi.
In questa Pillola, mi soffermo su un’accesa bagarre scientifica che tra il 1611 e il 1613 vide coinvolti Galileo Galilei e Cristoph Scheiner, quest’ultimo gesuita tedesco, noto astronomo e matematico presso l’Università di Ingolstadt in Baviera; l’oggetto del contendere fu la scoperta delle macchie solari. Sappiamo che le macchie solari sono regioni della superficie del Sole che appaiono più scure perché più fredde del resto; ciò è dovuto a una intensa attività magnetica che blocca i moti convettivi dei sottostanti strati più caldi che dunque non riescono a risalire all’esterno. La scoperta delle macchie ebbe un grande impatto nel Rinascimento perché mostravano che il Sole, astro per antonomasia, non solo ruotava ma anche che – scandalo! – non era “perfetto” come voleva il dogma dell’immutabilità dei corpi celesti di Aristotele e come sancivano le Scritture, insomma aveva dei “difetti”, le macchie, appunto.
Per lo Scheiner le macchie erano «stelle orbitanti attorno al Sole»; la sua teoria, esposta in tre lettere del 1611 e pubblicate nel 1612 venne contestata da Galileo che dal 1610 osservava le macchie, e che le interpretò, giustamente, come concrezioni appartenenti alla superficie della nostra stella che si generano e si dissolvono continuamente assumendo forme irregolari; nel 1613, a cura dell’Accademia dei Lincei, di cui era membro, la sua scoperta e le sue deduzioni furono pubblicate. Il dibattito su chi avesse scoperto per primo le macchie solari, si accese rovente, e coinvolse molti studiosi dell’epoca che si schierarono per l’uno o per l’altro contendente.
Galileo e Scheiner avrebbero potuto risparmiarsi la diatriba su chi fosse lo scopritore delle macchie se avessero saputo che, poco prima di loro, un altro astronomo, Thomas Harriot (1560-1621) le aveva già osservate con il telescopio, e che la sua scoperta era stata pubblicata nel 1611 da Johann Fabricius (c.1587-1615). Ma ancora di più, l’astronomo pisano e quello tedesco si sarebbero astenuti da qualunque rivendicazione scientifica, se avessero osato immaginare che, andando indietro nel tempo, le macchie solari erano anche già state oggetto di osservazione per lo scienziato arabo Ibn Rushd da Cordoba (Averroès) nell’anno 1196, e anche già osservate e disegnate nel 1128 da John Worcester, e nell’840 da un altro sapiente arabo, il visir Abū al-Fadl Ja‘far ibn al-Muqtafī del calliffato Abbaside (Iraq), e menzionate nell’807 da Eginardus (Einhard) nella sua Vita Karoli Magni. Per non parlare dei Cinesi…
E già, i Cinesi!
In Cina, la più antica menzione di osservazione delle macchie solari è in un brano che risale al secolo IX a. C., appartenente allo Yijing 易經 (semplificato易经 , Classico dei Mutamenti); vi è poi la prima registrazione a seguito di una deliberata osservazione che risale al 364 a. C. in un commentario all’opera dell’astronomo Gan De 甘德 . Dall’anno 28 a. C. in poi, le registrazioni delle macchie solari sono continue e costanti, e fino al 1638 nei capitoli astronomici delle storie dinastiche e in testi scientifici se ne trovano descritte 112. Al di là delle interpretazioni sul loro verificarsi, questi eventi astronomici non furono notati per caso o sporadicamente ma ebbero sempre l’attenzione qualificata di addetti ai lavori ed esperti che facevano parte dell’ufficio astronomico imperiale creato sin dai tempi più antichi per «misurare il cielo» e fornire all’imperatore – Figlio del Cielo – previsioni celesti esatte e calcoli calendariali corretti.
Le macchie solari venivano chiamate hei qi 黑氣 (vapore scuro), hei zi 黑子 (seme nero), oppure wu 烏 (corvo) per via di un antico mito risalente al secolo VIII a. C. che racconta proprio di un corvo che viveva sul Sole, ed erano descritte «grandi come una moneta», «delle dimensioni di un uovo di gallina», o «come pesche», «simili a prugne». Ci si è chiesti come facessero gli astronomi cinesi a osservare il disco solare senza incorrere nei danni, a volte irreversibili come la cecità, che subiscono gli occhi esponendosi a una luce così concentrata com’è quella del Sole; un’ipotesi plausibile è quella che vuole l’uso di sottili lastre di giada per filtrare i raggi solari, un’altra, derivata dall’analisi di un testo del VI secolo, mette in causa la polvere del deserto del Gobi che in alcuni periodi dell’anno è massicciamente presente nel vento che soffia sulle regioni settentrionali della Cina, e che avrebbe funto da attenuatrice della luminosità.
Dal punto di vista linguistico, il pittogramma che indicava il Sole, ri 日, è fra i più antichi tra quelli usati dalla scrittura cinese; le sue tappe evolutive sono le seguenti:
Il primo da sinistra è il carattere più arcaico, così come appare sulle ossa oracolari (sec. XIII-XI a.C.), il secondo è il Sole sui bronzi dagli Shang ai Zhou (XI-III a. C.); l’ultimo è ri come appare ancora oggi.
È interessante notare che in ogni civiltà antica, e in ogni disegno primitivo, il Sole è sempre indicato come un disco da cui si dipanano i raggi; nella scrittura cinese, invece, il Sole non irradia alcunché ma tiene dentro se stesso un unico tratto di scrittura che per alcuni simboleggia l’insieme dei raggi. Secondo un’altra interpretazione, quel segno all’interno del Sole altro non è che la rappresentazione di una macchia solare; se questa fosse la giusta conclusione dell’analisi del pittogramma, si potrebbe affermare che già in epoca Shang i Cinesi avevano dimestichezza con il fenomeno. Sarebbe questa una precoce, anzi precocissima conoscenza delle macchie solari, ma non essendo questa ipotesi suffragata da nessun altro documento, per timore di essere, come al solito, tacciato di cieca sinofilia, la menziono per dovere di cronaca ma mi guardo bene dallo sposarla…
Se il Sole “macchiato”, e dunque imperfetto, scatenò in Europa problemi teologici, accuse di eresia e anatemi, in Cina non avvenne nulla di ciò. Anzi, l’esistenza della teoria yin-yang che postula che ogni polarità di un determinato segno contiene in sé il germe della polarità opposta, ha fatto sì che la macchia nera all’interno del carattere ri 日 (Sole) sembrasse un modo per rappresentare quello che in Occidente conosciamo come “il disegno del Tao (Dao)”, ossia:
Va detto che oggi, in lingua cinese, ri 日 viene usato nel senso di «giorno» e appare in molti caratteri composti che indicano nozioni di tempo. Ma vi sono altri usi; ad esempio, per indicare il Giappone si scrive Riben 日本 , letteralmente Sole + radice, ossia il “Paese dove c’è la radice del Sole” (Paese del Sol Levante); i due caratteri 日本 sono usati anche in lingua giapponese, significano ugualmente Giappone, e vengono pronunciati ni hon, da cui proviene l’aggettivo “nipponico” usato dagli Occidentali.
Ritornando alle macchie solari, il termine che si usa oggi è riban 日斑 , in cui ban 斑 significa proprio “macchia”, “screziatura”, “zebratura” e cose analoghe; ban 斑 è anche usato in caratteri composti che indicano le malattie della pelle responsabili di eruzioni cutanee e anche di vistose e preoccupanti iperpigmentazioni. Insomma, le evocazioni naturalistiche, poetiche o no, che erano anticamente alla base dell’etimologia delle macchie solari in lingua cinese, ora si sono trasformate in pragmatiche, implacabili e sfiguranti chiazze. Mi spiego meglio: il corvo, senza neanche il bacio di una principessa o di un principe, si è tramutato in eczema…
Di Isaia Iannaccone