Detto, fatto! Nella Pillola precedente mi ero impegnato a parlare di un certo argomento, ed ecco che ora mi ci metto. Confesso, però, che nonostante la convinzione di essere laico, ossia di trattare qualunque cosa senza remore né tabù, né pregiudizi, la questione che mi accingo ad affrontare, sotto sotto mi mette un po’ a disagio. Forse perché sono napoletano.
Mi spiego. La lingua napoletana prevede figure retoriche che in altri luoghi dello Stivale farebbero scandalo. Per esempio potete rivolgervi a un amico e riferirvi alle pudenda delle sue più strette parenti (màmmeta, sòreta, zìeta), senza che si offenda. E un complimento molto apprezzato se riferito all’intelligenza o alla bravura di una persona, è quello che la connota come la secrezione delle gonadi maschili (sfaccimma). Senza parlare della parte del corpo dove non batte il sole (mazzo) che si usa abitualmente soprattutto per indicare molta fortuna oppure che il lavoro è troppo e faticoso. Attenzione, però: se a Napoli avete mano libera nello scherzare sui genitali femminili di famiglia altrui, o potete dare patenti di arguzia e attestati di stima citando il liquido seminale maschile, oppure parlare di glutei e ano come se niente fosse, in nessun caso potete nominare una certa, precisa parte del corpo senza scusarvi perché state superando i limiti della buona educazione.
La parte del corpo cui mi riferisco, quella che a Napoli genera quasi vergogna nel parlarne, è il piede o i piedi. Infatti, il galateo partenopeo prevede che ogni volta che per una qualunque ragione siete costretti a dire “piede” o “piedi”, dovete aggiungere subito dopo, con aria contrita: «Con decenza parlando», oppure «Scusate il termine». Non ho mai fatto una ricerca del perché c’è il quasi obbligo di usare queste espressioni che ammettono un senso di colpa, ma lancio l’ipotesi: forse l’abitudine a scusarsi è da ricercare nella imbarazzante bromidrosi plantare che rivela disguidi ghiandolari o trascuratezza igienica (o entrambe), cause della eccessiva proliferazione di quei batteri che producono i noti e maleodoranti acidi grassi e ammine. La puzza di piedi, insomma.
Concludendo questo increscioso preambolo, oggi, nonostante l’argomento mi crei imbarazzo, voglio disquisire proprio dei piedi – con decenza parlando – ma non dell’intera umanità, bensì soltanto di quelli delle cinesi di una volta.
È noto che per mille anni, dal secolo X fino alla prima metà del Novecento, in Cina si è praticata l’orribile usanza di impedire la crescita dei piedi delle bambine fino a farli atrofizzare, così da avere delle adulte con piedi piccolissimi e deformi. Questo scempio è fatto risalire al capriccio di un imperatore della dinastia Tang 唐 che, per accendere i propri appetiti sessuali, pretese che una sua giovanissima concubina si bendasse strettamente i piedi per renderli più piccoli, in modo da eseguire nel modo più leggiadro possibile la tradizionale “danza del loto”; la coreografia di questa danza consisteva in brevi passi e in movenze languide che dovevano evocare la leggerezza dei petali del loto e stimolare l’amore raffigurato come il cuore del loto stesso.
Un secolo dopo, per imitazione dei gusti imperiali, le donne con i piedi piccoli divennero di moda, un costume nazionale che simboleggiava ricchezza e distinzione di classe. Il bendaggio coercitivo dei piedi delle bambine cominciava tra i cinque e i sei anni, e durava fino a che i piedi raggiungevano la taglia ideale e stabile per rassomigliare al fiore del loto (circa 7,5 cm). Il metodo era dolorosissimo: si bagnava il piede in acqua calda o in sangue animale, poi si piegavano le dita all’interno tranne l’alluce, si forzava al massimo la curvatura plantare, e si bendava strettamente mettendolo poi in scarpe piccolissime e appuntite; all’interno delle scarpe spesso si aggiungeva una placca di ferro che impediva maggiormente al piede di muoversi. Le bende venivano cambiate ogni giorno, i piedi lavati con erbe medicinali, e si utilizzavano scarpine via via più piccole. Man mano che il tempo passava e la bambina cresceva, l’irrigazione sanguigna si affievoliva, le dita erano le prime ad atrofizzarsi e, spesso, morivano e cadevano; inoltre se, crescendo, i piedi non si fratturavano naturalmente, le fratture venivano provocate per costringerli nella morsa della piccola scarpa. È stato stimato che il 10% delle ragazze moriva per setticemia a causa di queste pratiche.
Anche se i piedi troppo piccoli rendevano handicappate le donne che non potevano più camminare normalmente dipendendo sempre di più dagli uomini, l’atroce usanza si diffuse in quasi tutte le classi sociali tranne quelle contadine in cui le donne avevano bisogno di piedi ben stabili ed efficienti per lavorare nei campi. I chanzu 缠足 (piedi fasciati), noti in Occidente come “fiori di loto” o “gigli d’oro”, divennero un simbolo erotico: secondo la contorta mentalità maschile, l’andatura incerta e dondolante rafforzava e ingrossava le cosce che, accostandosi così l’una all’altra, provocavano il restringimento della vagina; i piedini delle donne, quindi, erano considerati catalizzatori di sensualità, libidine e desiderio, e divennero oggetto di una vera e propria adorazione anche presso uomini di cultura (poeti e filosofi dedicarono a essi lodi sperticate).
Oltre alle contadine cinesi, alcune etnie non praticarono in modo massivo o del tutto il bendaggio dei piedi femminili, per esempio gli Hakka, i Mongoli, i Tibetani, i Manciù. Sotto questi ultimi, che con la dinastia Qing (清) governarono la Cina dal 1644 fino alla proclamazione della Repubblica (1912), ci furono degli strenui contrari al costume dei piedini, come l’imperatore Kangxi 康熙 (date di regno 1661-1722) e l’imperatrice Cixi 慈禧 (date di regno 1861-1908). Nel 1887, sotto la spinta delle richieste per riformare in modo moderno lo Stato al fine di contrastare la penetrazione colonialista degli Occidentali, fu fondata la Bu chanzu hui 不缠足会chiamata anche Jie chanzu hui 戒缠足会 (Società contro il bendaggio dei piedi) questa Società è ritenuta dagli storici la prima forma di protesta per l’emancipazione femminile. Nel seguito, associazioni similari nacquero a macchia di leopardo sull’intero territorio cinese, e cominciarono a fioccare i primi divieti in diverse provincie. L’aspetto negativo di queste prese di posizione fu che alcuni governatori emisero degli editti che obbligavano le donne a sfasciarsi i piedi, e ciò portò a ulteriori sofferenze perché in molto casi non fu possibile eliminare le bende senza provocare ulteriori ferite e piaghe.
La fondazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949 pose una pietra tombale sul bendaggio dei piedi. La questione fu affrontata nell’ambito della conferenza consultiva politica del Partito Comunista che preparava la Costituzione; per la prima volta, in un organo dirigente statale vi erano rappresentanti femminili, e il loro contributo fu determinante quando vennero affrontati i principali problemi da risolvere per traghettare il Paese dal feudalesimo alla modernità: eliminazione dell’analfabetismo, suffragio universale, riforma agraria, partecipazione delle donne alle attività produttive, proibizione della prostituzione e dell’uso dell’oppio, e la nuova legge sul matrimonio. Quest’ultima proclamava l’uguaglianza tra uomini e donne, proibiva il matrimonio combinato o forzato, proteggeva gli interessi della donna e dei bambini nell’ambito della famiglia, vietava il sopruso ancestrale dei maschi sulle femmine, e la violenza domestica compreso il bendaggio dei piedi delle bambine. Insomma, l’altra metà del cielo era stata finalmente riconosciuta come tale.
Il primo a raccontare in Occidente che i piedi delle donne cinesi avevano qualcosa di strano, fu uno dei pionieri delle missioni europee in Cina: il francescano Odorico da Pordenone. Al ritorno dal suo lungo viaggio in Oriente, nel maggio del 1330 dettò la sua relazione di viaggio a fra’ Guglielmo da Solagna; in essa si può leggere: «Quanto alle donne, per loro la bellezza consiste nell’avere piedi piccoli: quando sono bambine, le madri legano loro i piedi per arrestarne in modo definitivo la crescita». Nel seguito, la descrizione dei piedini femminili diviene consueta negli scritti di coloro che viaggiarono in Cina, e l’usanza fu oggetto di critiche e ridicolizzazioni che non sempre affrontavano la pratica del bendaggio per stigmatizzarla, ma piuttosto per mettere in cattiva luce i Cinesi in generale. In epoca contemporanea, oltre alla politica anche la psichiatria si è occupata dei “gigli d’oro”, ad esempio Siegmund Freud bollò la pratica come feticismo.
La Cina, dopo avere sconfitto definitivamente un così infame costume, oggi ne ha digerito gli aspetti negativi e i sensi di colpa, e dell’argomento se ne parla in chiave storica e di progresso. Che l’orrore di questa tradizione sia stato metabolizzato lo dimostrano coloro che ne hanno fatto oggetto di rivisitazione in chiave artistica. Cito per tutti Wang Yuanyuan 王媛媛, la coreografa di fama mondiale che nel 2008 ha fondato il Beijing Dance Theater; ebbene, nel 2011, a Hong Kong, ha presentato uno spettacolo di danza contemporanea dal titolo “Golden Lotus” (Il loto d’oro) che poi, di successo in successo, ha fatto il giro dei più importanti teatri del Pianeta; in esso si mettono in scena le emozioni delle donne cinesi che lottano per fare sentire la loro voce e accedere al potere, e i loro piedi. Con decenza ballando.
Di Isaia Iannaccone*
**Isaia Iannaccone, nato a Napoli, chimico e sinologo, vive a Bruxelles. Membro dell’International Academy of History of Science, è specialista di storia della scienza e della tecnica in Cina, e dei rapporti Europa-Cina tra i secoli XVI e XIX. È autore di numerosi articoli scientifici, di trattati accademici (“Misurare il cielo: l’antica astronomia cinese”, 1991; “Johann Schreck Terrentius: la scienza rinascimentale e lo spirito dell’Accademia dei Lincei nella Cina dei Ming”, 1998; “Storia e Civiltà della Cina: cinque lezioni”,1999), di due guide della Cina per il Touring Club Italiano e di lavori per il teatro e l’opera. Ha esordito nella narrativa con il romanzo storico “L’amico di Galileo” (2006), best seller internazionale assieme al successivo “Il sipario di giada” (2007, 2018), seguiti da “Lo studente e l’ambasciatore” (2015), “Il dio dell’I-Ching” (2017) e “Il quaderno di Verbiest” (2019)