Il 1368, per la Cina, fu un anno cruciale: venne fondata la dinastia Ming che, succeduta alla dinastia “barbara” dei Mongoli, si prefisse di ricentrare ogni punto di riferimento politico, economico, sociale e culturale sui valori tradizionali, esclusivamente cinesi. Se riuscì nell’intento non ve lo dico perché esula dagli argomenti che voglio invece sviluppare.
Più modestamente, immensamente più modestamente, il 1368 è un anno importante anche per questa Pillola perché è proprio nel 1368 che la tradizione situa la composizione di un romanzo di cui voglio parlare: Shuihuzhuan 水浒传 (letteralmente: Passaggio sugli argini). Attribuito a due autori di cui nulla si sa, è pubblicato in Italia sotto il titolo de I briganti o anche In riva all’acqua in un’altra edizione, in un’altra ancora come Il dente di Budda; negli USA fu tradotto dal cinese da Pearl Buck (premio Nobel per la Letteratura nel 1938) col titolo All men are brothers; in Francia come Au bord de l’eau; in Germania fu edito come Die Räuber vom Liang-Schan-Moor. Il romanzo, in una edizione giapponese del 1805, fu corredato dalle stampe del celebre Hokusai; esso ha avuto anche versioni a fumetti (come quella del disegnatore italiano Magnus), ed esistono una cinquantina di adattamenti per l’opera di Pechino, tre film di Hong Kong (due del 1972, una del 1977), un lungometraggio di animazione (2015), e una serie televisiva sino-giapponese (1977). Recenti ricerche hanno messo in luce che il romanzo è basato su fonti del secolo XIV ma fu scritto tra i XV e XVI, e fu una impresa editoriale di vasta portata che si concretizzò a Suzhou e a Fuzhou, e coinvolse differenti scrittori dei quali si nota la differenza di stile. Esso è annoverato fra i cinque più importanti romanzi della letteratura cinese.
La storia de I briganti ricalca un tema ricorrente nella letteratura della Cina confuciana (i funzionari sono corrotti, opprimono il popolo, e ai coraggiosi non resta che ribellarsi per ristabilire la giustizia), e s’ispira a un’insurrezione popolare avvenuta nel 1114 capeggiata da Song Jiang, un rivoltoso divenuto leggendario. Messa a ferro e a fuoco la provincia dello Shandong, egli risultò invincibile per le truppe imperiali, e all’imperatore non restò che cooptarlo assieme alla sua banda nel proprio esercito al fine di soffocare altre rivolte.
Nel romanzo avviene la stessa cosa. I banditi, uomini e donne, sono 108 (come i grani del rosario buddista e come le posizioni del taolu, una forma di arte marziale che si pratica con la spada); combattenti indomiti e generosi, accorrono a sanare con le armi le ingiustizie e, data la loro imbattibilità, alla fine vengono arruolati dall’imperatore. Questo genere di personaggi alla Robin Hood, persone coraggiose che infrangono la legge per soccorrere il popolo vessato e oppresso, sono presenti nella letteratura di molti Paesi.
Ritornando alla Cina e al banditismo letterario e a quello reale, esistono due termini per classificare i banditi: bingfei 兵匪 e tufei 土匪, con il primo vengono indicati i soldati-bandito, malavitosi criminali, con il secondo i briganti tradizionali che si ribellavano perché oppressi (come quelli del romanzo I briganti).
Dopo la caduta dell’impero nel 1911, la formazione di potentati locali dotati di eserciti privati, la loro rivalità belligerante (periodo detto dei Signori della Guerra), la penuria di beni di prima necessità e le difficoltà finanziarie, favorirono il crollo dell’ordine sociale e sancirono il diritto del più forte. Ogni sconfitta di un signore della guerra portava alla dissoluzione della sua milizia privata e allo sbando di soldati che quasi naturalmente si davano al banditismo cooptando numerosi disperati. I bingfei, dunque, erano disertori, o militari non pagati oppure congedati, che formavano bande di fuorilegge. Composte anche di migliaia di persone, queste formazioni erano in possesso di armi, gli adepti conoscevano anche se a volte sommariamente l’arte della guerra, e saccheggiavano con efficacia militare le zone in cui operavano, rendendosi responsabili di feroci massacri. I bingfei non avevano nulla del ribelle sociale, spauracchio dei ricchi, che ha dalla sua parte l’approvazione e l’appoggio dei contadini; i bingfei, aggressivi e criminali, rappresentavano lo stadio più infimo di un ventaglio di strategie di sopravvivenza diventate indispensabili date le dure condizioni di vita.
Nella Cina moderna, il periodo di massimo sviluppo del banditismo si ebbe nei primi decenni del Novecento. Tra il 1916 e il 1928, le diverse truppe passarono da 500mila a 2 milioni di individui. Si è calcolato che nel 1930 esistevano in Cina 20 milioni di soldati-bandito, concentrati soprattutto nelle province settentrionali.
Fu in questo clima caotico e violento nel quale i bingfei la facevano spesso da padroni a dispetto del governo centrale, che maturò l’attentato di Lincheng. Esso appare particolarmente interessante perché sembra ricalcare ciò che il romanzo I briganti aveva evocato secoli prima. Vediamo cosa successe.
Il 6 maggio del 1923, nei pressi della stazione di Lincheng nello Shandong meridionale, alle due di notte, 1200 soldati-bandito assaltarono il Blue Express, treno di lusso che collegava Pukou (distretto di Nanchino) con Tianjin (dov’erano concentrate le concessioni occidentali, a poco più di 110 km da Pechino). Per fermare il treno, fu usata la solita tecnica: vennero divelti i binari, e il convoglio deragliò. «O la borsa o la vita!» fu valido solo per i passeggeri occidentali, infatti uno di loro – tale Joseph Rothman, inglese – che si rifiutò di consegnare denaro e oggetti di valore, fu ucciso all’istante; molti viaggiatori cinesi, invece, furono assassinati senza andare troppo per il sottile, prima ancora che aderissero alla richiesta di cedere i propri beni: ne furono ammazzati duecento.
Dopo la sanguinosa rapina, i banditi presero in ostaggio trecento passeggeri, fra cui venticinque occidentali di varia nazionalità (americani, italiani, danesi, francesi e tedeschi); fra gli ostaggi la cognata del finanziere John D. Rockefeller Jr., il commodoro Giuseppe Musso un intimo di Mussolini, Lucy Aldrich figlia di un senatore americano, e John Benjamin Powell celebre giornalista e cofondatore nel 1917 del settimanale China Weekly Review, il primo periodico in lingua inglese pubblicato in Cina, con sede a Shanghai. I malcapitati furono costretti a marciare sotto la minaccia delle armi per dieci giorni, fino a raggiungere le Baozi gu (Impervie Montagne del Leopardo) dove i banditi avevano il loro covo.
Le proteste della comunità occidentale furono immediate; le trattative per liberare i prigionieri furono guidate dagli americani e portate avanti dalle autorità regionali cinesi. Le donne in ostaggio vennero liberate dopo un paio di giorni, gli uomini dopo oltre un mese ma soltanto quando il capo dei banditi, Sun Meiyao – un ex militare di 25 anni che aveva servito in una milizia privata dello Hunan – ebbe assicurata la non punibilità per sé e per i suoi uomini, e in più la garanzia che egli e i suoi accoliti sarebbero stati reintegrati nell’esercito regolare governativo per …combattere il banditismo. Le cronache narrano che Sun uscì dal suo covo con la divisa di generale di brigata, e assunse il comando delle truppe che erano state mandate per annientarlo.
L’esito del negoziato scatenò l’ira degli Occidentali che avrebbero voluto una punizione esemplare dei banditi; si ipotizzò la rottura delle relazioni diplomatiche con il governo cinese, e si minacciò di consegnare il controllo delle ferrovie a una forza internazionale e non più agli autoctoni. Non se ne fece nulla di tutto ciò perché nel giro di sei mesi la maggior parte dei bingfei, ormai soldati dell’esercito cinese, e lo stesso Sun Meiyao, furono fucilati perché incolpati di essere ancora in contatto con bande sovversive. Nel 1932, l’episodio ispirò il film Shanghai Express con Marlene Dietrich, e nel 2010 il film cinese Rang zidan fei 让子弹飞 (Lascia volare i proiettili).
«In questo mondo nel quale nessuno resiste alle sirene
Chi saprebbe distinguere un saggio da un bandito?»
Sono, questi, versi di Li Bai 李白 (701-762), più noto come Li Po o Li Bo secondo l’antica pronuncia, ma anche con il suo nom de plume Li Taibai, uno dei più famosi poeti d’epoca Tang, periodo d’oro della poesia cinese, quando si celebrava l’ubriachezza liberatrice («L’immortale beve da solo sotto la luna…»), e si dava all’alcool di riso il potere di scatenare la creatività più sublime. Versi poetici, questi, ma anche pragmatici: ad esempio, quando Sun Meiyao uscì dalle rocce abbigliato con l’uniforme di militare d’alto rango, chi avrebbe potuto dire che fosse un bandito e non un onesto, leale e saggio uomo dello Stato devoto al bene della comunità?
Nell’epoca in cui viviamo, infestata di sirene, i versi di Li Bai potrebbero tornare utili per stimolarci a coltivare il beneficio del dubbio al fine di discernere i veri dai falsi saggi.
Di Isaia Iannaccone*
**Isaia Iannaccone, nato a Napoli, chimico e sinologo, vive a Bruxelles. Membro dell’International Academy of History of Science, è specialista di storia della scienza e della tecnica in Cina, e dei rapporti Europa-Cina tra i secoli XVI e XIX. È autore di numerosi articoli scientifici, di trattati accademici (“Misurare il cielo: l’antica astronomia cinese”, 1991; “Johann Schreck Terrentius: la scienza rinascimentale e lo spirito dell’Accademia dei Lincei nella Cina dei Ming”, 1998; “Storia e Civiltà della Cina: cinque lezioni”,1999), di due guide della Cina per il Touring Club Italiano e di lavori per il teatro e l’opera. Ha esordito nella narrativa con il romanzo storico “L’amico di Galileo” (2006), best seller internazionale assieme al successivo “Il sipario di giada” (2007, 2018), seguiti da “Lo studente e l’ambasciatore” (2015), “Il dio dell’I-Ching” (2017) e “Il quaderno di Verbiest” (2019)