Tradotti in più di cento lingue e dialetti, i 24 album di Tintin venduti in oltre 230 milioni di esemplari, non hanno certo bisogno di presentazione ma, nonostante il successo decretato loro dalla diffusione planetaria, qualche anno fa sono stati investiti dai nefasti effetti della cancel culture
Il carattere cinese ding 丁 è molto facile da scrivere perché è composto soltanto da due tratti, uno orizzontale (che si traccia per primo, da sinistra verso destra) e l’altro verticale (dall’alto in basso). Nel suo significato più antico rappresenta il numero 4 della numerazione di dieci numeri detta dei Dieci Tronchi Celesti usata nell’astrologia cinese in combinazione con un altro sistema di numerazione di dodici numeri chiamato Dodici Rami Terresti; assieme, i Tronchi e i Rami danno origine a 60 numeri (sistema ganzhi) che rappresentano il modo tradizionale di numerare i giorni e gli anni, apparso già sulle ossa oracolari e sui bronzi Shang nel secolo XII a. C.
Nel tempo, ding ha assunto anche altri significati che ancora mantiene a secondo del contesto in cui viene usato: è un cognome, oppure indica piccoli pezzi di verdure o carne, ed è anche un aggettivo che connota persone impegnate nel proprio mestiere.
Ding, se accoppiato a un altro identico carattere, forma dingding 丁丁, un vocabolo onomatopeico che indicava lo sgocciolamento delle clessidre ad acqua, antichi strumenti che misuravano lo scorrere del tempo: erano formate da vasi sovrapposti nei quali il liquido colava da quello più alto a quello più basso in cui era posto un bastone graduato che indicava l’ora a seconda del livello raggiunto dall’acqua. Ormai, però, da diversi decenni, Dingding 丁丁 è usato dai Cinesi per pronunciare il nome di un eroe dei fumetti occidentali: Tintin, il giovane reporter, giramondo e investigatore partorito dalla fulgida fantasia e dalla felice matita del belga Georges Remi alias Hergé (1907-1983).
Tradotti in più di cento lingue e dialetti, i 24 album di Tintin venduti in oltre 230 milioni di esemplari, non hanno certo bisogno di presentazione ma, nonostante il successo decretato loro dalla diffusione planetaria, qualche anno fa sono stati investiti dai nefasti effetti della cancel culture, quella, per intenderci, che, utilizzando metri di giudizio arbitrari perché fuori dal contesto storico dei fatti oppure suggeriti da cieco zelo integralista, si arroga il diritto di mettere al bando se non istigare al linciaggio (almeno sui social) di persone, opere d’arte, film, libri, opinioni, artisti, scrittori, etc. accusati di essere offensivi o di propagandare valori giudicati moralmente inammissibili.
Infatti, nel 2019, in Canada, nel sud-est dell’Ontario, le biblioteche di trenta scuole cattoliche hanno organizzato il rogo di cinquemila libri per la gioventù per «purificarli con le fiamme» dai loro contenuti giacché, a detta degli “inquisitori”, essi parlavano male degli autoctoni e propagandavano messaggi razzisti. Fra questi libri, le cui ceneri furono poi utilizzate come concime per piantare nuovi alberi da cui in futuro ricavare la cellulosa per fabbricare carta da usare per pubblicare testi dai contenuti “politicamente corretti”, c’erano anche gli album di Hergé: Tintin in Congo, Tintin in America, e Il Loto Blu, le celebri avventure africana, americana e cinese del personaggio. Nella prima ci sarebbero espressioni offensive per i pellerossa, nella seconda uno sguardo colonialista nei riguardi dei congolesi, e nella terza una continua presa in giro dei Cinesi e della loro cultura millenaria.
Riprese da solerti inquisitori europei – soprattutto inglesi, belgi e francesi – le accuse portarono a proposte del tipo: fare precedere le edizioni da una prefazione con le scuse della casa editrice, oppure attaccare degli autocollanti sulla copertina con sopra scritto «Prodotto tossico, nuoce gravemente alla salute mentale», e amenità del genere. Quand’era in vita, lo stesso Hergé si era speso per spiegare le sue scelte nell’avventura congolese di Tintin e rimetterla nelle circostanze storiche dell’epoca: scritta e disegnata e pubblicata a puntate tra il 1930 e il 1931, nel periodo del colonialismo belga in Congo, essa era stata commissionata dal giornale Le Vingtième Siècle per rilanciare lo spirito di «proselitismo patriottico» e stimolare altri belgi a emigrare nel Paese africano; successivamente, dopo che i valori dell’antirazzismo e dell’anticolonialismo si erano imposti nella coscienza politica e nella cultura europee ed erano stati maturati dalla comunità, lo stesso Hergé, confessando di essere stato deviato dai pregiudizi dell’epoca, aveva purgato e ridisegnato l’album tanto che l’edizione attualmente disponibile differisce enormemente dall’edizione originale del. Nel 2007, l’affaire ebbe anche risvolti giudiziari: la casa editrice (e dunque l’artista), con una sentenza del 2011, furono del tutto scagionati dalle accuse mosse loro: «Visto il contesto dell’epoca, Hergé non poteva essere animato da intenti razzisti», e Tintin in Congo fu assolto da qualunque accusa e autorizzato alla vendita. Nel 2020, una nuova sentenza del Tribunale di Bruxelles confermò l’umorismo «candido e gentile» di Hergé che aveva come unico scopo quello di «divertire i suoi lettori».
Anche il caso de Il Loto Blu, entrato anch’esso nelle maglie della cancel-culture, presenta risvolti che sarebbero esilaranti se non fosse drammatico il fatto di attaccare la cultura con metodi e mezzi che di culturale non hanno nulla. Infatti, come si dimostra senza ricorrere all’esegesi accademica, ma semplicemente ricorrendo a un po’ di discernimento, di buon senso e di cognizioni, l’album in questione – pubblicato sempre su Le Victième Siècle in bianco e nero tra il 1934 e il 1935, e in volume a colori nel 1946 – non soltanto non ha nulla di razzista contro i Cinesi, ma anzi usa molto riguardo per essi e una grande finezza per mettere alla berlina i preconcetti occidentali sul popolo cinese, e per attaccare i Giapponesi alla vigilia della loro efferata invasione della Cina.
L’avventura di Tintin che prende il nome dalla fumeria d’oppio Il Loto Blu, è rutilante di invenzioni, di personaggi, di inseguimenti e di colpi di scena; è ambientata e si sviluppa prevalentemente nella concessione internazionale di Shanghai nell’epoca della Guerra dei Boxer, del colonialismo occidentale in Cina e del flagello del traffico d’oppio; ricordiamo che in queste enclave straniere non venivano rispettate le leggi cinesi ma soltanto quelle dei Paesi occupanti che praticavano un’occupazione dura e pura.
Per dimostrare che Il Loto Blu nulla ha che vedere con le accuse mossegli dalla cancel-culture, si può cominciare con il dire che per scrivere e disegnare questa storia, Hergé tenne a prepararsi con un notevole lavoro di documentazione perché voleva evitare di mostrare i Cinesi con gli stereotipi inventati dagli Occidentali. Nel suo percorso di acculturazione fu guidato da libri, film e reportage fotografici dell’epoca (soprattutto quelli del fotografo austriaco Heinz Von Perckhammer le cui immagini hanno ispirato alcune tavole), e da diverse persone competenti: Léon Grosset, confessore degli studenti cinesi dell’Università di Leuven (Lovanio); Arnold Tchiao Tch’eng-tchih uno studente cinese della stessa Università esperto in teatro cinese, e sua moglie Susan Lin, diventati poi suoi amici inseparabili; Édouard Neut, abbate dell’abbazia Saint-André di Bruges, che lo introdusse presso Lou Tseng-tsiang ex ministro di Sun Yat-sen, convertitosi al cattolicesimo e monaco nella stessa abbazia. Il più determinante fra tutti fu però Tchang Tchong-jen studente dell’Académie Royale de Beaux-Arts di Bruxelles, un giovane erudito che fu determinante sia per la sua profonda conoscenza della cultura cinese, che per i consigli tecnici che diede a Hergé in materia di disegno; i continui incontri fra i due li portarono a una profonda amicizia. Tchang stesso divenne un eroe del fumetto, trasformato in un personaggio chiave, ossia un ragazzo che guida Tintin nella comprensione e nel rispetto del mondo cinese. Presso gli archivi della casa editrice Moulinsart – ben nota ai tintinofili – sono raccolti molti degli appunti che Hergé prese durante il periodo di preparazione e di creazione dell’album Il Loto Blu.
Fra i tanti esempi dell’autoironia con cui Hergé dipinge gli Occidentali, citiamo per tutti una sequenza del fumetto in cui Tintin salva il giovane Tchang dalla morte; il ragazzo si stupisce: «Credevo che tutti i diavoli bianchi fossero cattivi come quelli che anni fa hanno massacrato i miei nonni», dice. E Tintin replica: «Ah!, La Guerra dei Boxer… Ma no, Tchang, i bianchi non sono tutti cattivi, il fatto è che i popoli si conoscono male …»; ed enumera alcuni cliché dei pregiudizi occidentali: «Tutti i Cinesi sono furbi e crudeli, portano una treccia e passano il proprio tempo a inventare supplizi e a mangiare uova marce e nidi di rondine… Gli Europei credono che tutte le cinesi abbiano piedi minuscoli, e che le bambine cinesi subiscano mille torture destinate a evitare che i loro piedi si sviluppino normalmente. Infine, essi sono convinti che tutti i fiumi cinesi siano pieni di neonati gettati in acqua alla nascita…»
Oltre a queste notazioni fortemente autocritiche sull’ignoranza degli Occidentali riguardo la cultura cinese, presenti qua e là anche graficamente (ad esempio, i poliziotti Dupond e Dupont girano ridicolmente abbigliati con una veste gialla istoriata con un drago, tipica veste imperiale, e si meravigliano che tutti li guardino e li seguano), anche i caratteri cinesi che appaiono nelle tavole hanno messaggi socialmente e politicamente molto forti e per niente razzisti. Anzi…
Per esempio, in un riquadro, su una striscia rossa sono scritti i seguenti caratteri 取消不平 (quxiao bu ping); il seguito è nascosto ma l’espressione completa è ben nota agli storici della Cina perché usata come protesta all’epoca in cui gli Occidentali, dopo le Guerre dell’Oppio, imposero ai Cinesi gli umilianti Trattati Ineguali. L’intera frase è: 取消不平等条约 (quxiao bu ping deng tiaoyue), ossia: Aboliamo i trattati Ineguali!
Su un’altra illustrazione si leggono i caratteri 打倒帝国主义 (dadao diguozhuyi): Abbattiamo l’imperialismo! E in un’altra ancora: 抵制日货 (dizhi rihuo): Boicottate i prodotti giapponesi!
Potremmo andare avanti ancora un po’ con le “prove” che emergono da Il Loto Blu che dimostrano che niente fu più lontano dal razzismo di quest’opera grafico-letteraria. Gli stessi Cinesi e Giapponesi degli anni Trenta caddero nella trappola di quella che ancora non si chiamava cancel-culture ma semplicemente censura: essi, senza alcuna analisi dell’opera di Hergé, la misero all’indice dalla sua apparizione fino a epoca recente, tanto che la prima edizione de Il Loto Blu in lingua cinese è del 1984, e quella in giapponese del 1993.
Se l’ignoranza e la mancanza di approfondimenti hanno portato a questi tristi risultati, conforta sapere che Hergé, oggi completamente rivalutato, è attualmente fra i creatori di graphic-novel più apprezzati al mondo: a parte la continuità delle sue pubblicazioni in milioni di esemplari, nel gennaio 2021 la casa editrice Casterman ha messo all’asta la prima bozza in gouache e acquarello della copertina che egli aveva ideato per Il Loto Blu nel 1936 ma che poi non fu utilizzata; ebbene, essa ha raggiunto la quotazione di 3,2 milioni di Euro.
Ora, scusate se mischio i fanti con i santi, ma se tanto mi dà tanto, spero che anche le mie Pillole di Cina, per quanto modeste, cadano sotto l’accetta della cancel-culture così, magari, c’è la speranza, anche se remota, che prima o poi io diventi milionario…
Di Isaia Iannaccone*
*Isaia Iannaccone, nato a Napoli, chimico e sinologo, vive a Bruxelles. Membro dell’International Academy of History of Science, è specialista di storia della scienza e della tecnica in Cina, e dei rapporti Europa-Cina tra i secoli XVI e XIX. È autore di numerosi articoli scientifici, di trattati accademici (“Misurare il cielo: l’antica astronomia cinese”, 1991; “Johann Schreck Terrentius: la scienza rinascimentale e lo spirito dell’Accademia dei Lincei nella Cina dei Ming”, 1998; “Storia e Civiltà della Cina: cinque lezioni”,1999), di due guide della Cina per il Touring Club Italiano e di lavori per il teatro e l’opera. Ha esordito nella narrativa con il romanzo storico “L’amico di Galileo” (2006), best seller internazionale assieme al successivo “Il sipario di giada” (2007, 2018), seguiti da “Lo studente e l’ambasciatore” (2015), “Il dio dell’I-Ching” (2017) e “Il quaderno di Verbiest” (2019)