Il linguaggio, si sa, influenza i percorsi mentali con i quali interpretiamo la realtà. Sappiamo che etimologicamente, “democrazia” viene dal greco e nella sua evoluzione storica e concettuale significa “potere del popolo”, ossia un sistema di governo in cui la sovranità spetta alla maggioranza dei cittadini. E in cinese?
Nella precedente Pillola, ho provato a esprimere cosa c’insegna la Storia a proposito della differenza che hanno i Cinesi nel vedere e misurare il mondo, rispetto a noi occidentali; in particolare, ho cercato di puntualizzare come siano diverse le loro unità di misura, e come i grandi numeri cui sono abituati abbiano influenzato il loro sguardo sulla realtà, sguardo con cui dobbiamo fare i conti. Oggi, spinto dall’attualità che ci stimola sempre di più a confronti con altre civiltà, riprendo il discorso da un altro punto di vista, quello del linguaggio.
Il linguaggio, si sa, influenza i percorsi mentali con i quali interpretiamo la realtà. L’astrofisico Hubert Reeves ci mostra con una similitudine che non esito a definire omerica per la sua arditezza, come realtà e linguaggio scritto si assomiglino: egli sostiene che gli atomi si associano a formare molecole, e le molecole si combinano per creare e modellare le cose animate e inanimate allo stesso modo con cui le lettere dell’alfabeto si accorpano per iscritto e producono parole, frasi semplici o complesse, discorsi, libri. Ma, mi chiedo e vi chiedo, che succede se la lingua scritta non è alfabetica?
Sinologi come Léon Vandermeersch e Cyrille J.-D. Javary, e la linguista Clarissa Herrenschmidt, hanno sottolineato in articoli, interviste, saggi, che gli esseri umani hanno una visione differente del mondo a seconda se utilizzano una scrittura fonetica o una scrittura ideografica. La neurologia ha provato che la parte sinistra del cervello è quella che effettua non solo le operazioni matematiche ma è anche responsabile di associare dei significati a suoni e gruppi di lettere. Per leggere i caratteri cinesi, invece, entra in gioco la parte destra del cervello che si occupa di decodificare le immagini. La questione non sembri anodina, un bavardage fra persone colte che vogliono mostrare quanto ne sanno, bensì un punto importante da considerare quando abbiamo di fronte a noi gli altri, ove per altri intendo coloro che comunicano parole scritte non usando l’alfabeto.
Per fare un esempio semplice pensiamo alla parola “cielo”: da noi, con il semplice escamotage di mettere la maiuscola e scrivere “Cielo”, capiamo subito se parliamo del cielo atmosferico e astronomico oppure del Cielo sede di istanze religiose. Per i Cinesi, questa dualità ontologica non esiste, “cielo” si scrive 天 (tian), uno dei più antichi caratteri della scrittura cinese, formato da due parti: da 大 (pittogramma antichissimo che mostra un uomo con le braccia allargate, significa “grande”), sormontato da un tratto orizzontale che indica un limite insuperabile; l’insieme, tian 天, può indicare sia il cielo meteorologico e astronomico che quello che regola e armonizza coloro che sotto il cielo vivono, un cielo mitico che tante civiltà hanno riempito di esseri soprannaturali. Come si fa a distinguerli? Associando graficamente 天 ad altri caratteri (uso quelli non semplificati): il cielo meteorologico è 天氣 (tianqi, soffio vitale del cielo), il cielo astronomico 天學 (tianxue, studio del cielo, ossia astronomia), mentre quello, per esempio, dei cattolici, è 天主教 (tianzhujiao, insegnamento del maestro del cielo). Dunque, in Cina non c’è che un “cielo” il quale non è né un luogo fisico né un luogo mitologico ma semplicemente l’immagine di un concetto del tutto neutrale.
Prendiamo, come altri esempi, due parole di cui ci riempiamo spesso la bocca: “democrazia” e “repubblica”, e vediamo quale itinerario concettuale hanno percorso i Cinesi per tradurle nella loro lingua nella quale non esistevano prima che gli Occidentali le introducessero. Sappiamo che etimologicamente, “democrazia” viene dal greco e nella sua evoluzione storica e concettuale significa “potere del popolo”, ossia un sistema di governo in cui la sovranità spetta alla maggioranza dei cittadini.
In cinese, la democrazia è indicata da: 民主, minzhu, dove min 民 significa “uomini”, “gente”, “popolo”, “abitanti di un Paese”, e zhu 主 rappresenta “colui che invita in casa propria”, “proprietario”, “maestro”, “colui che presiede”, “colui che esercita l’autorità o il dominio”, e utilizzando i significati più antichi, anche “tavoletta su cui è scritto il nome di un defunto o di un antenato”; in definitiva, andando al significato ideografico cinese, “la democrazia” alfabetica si trasforma in “la proprietaria del popolo”, “l’autorità sulla gente”, “colei che presiede l’insieme degli abitanti un Paese” e, in estremo, anche “la tavoletta degli antenati del popolo”.
Veniamo a “repubblica”. Per noi, l’insieme di lettere scritte in quest’ordine ci rimanda immediatamente alla res pubblica, ossia alla presa di coscienza e alla partecipazione dei cittadini alla discussione corale di come gestire gli affari che riguardano tutti, e al potere decisionale della maggioranza. Se andiamo ora a vedere questa parola nella lingua ideografica cinese, essa viene resa con i seguenti caratteri (non semplificati): 共和國 che si pronunciano singolarmente gong he guo, e nell’ordine significano: “in comune” + “armonia” + “Paese”. Dunque, per i Cinesi, che pur vivono in una denominata Repubblica (per di più Popolare), essa non ha nulla a che vedere con una discussione corale dei cittadini sugli affari pubblici, bensì definisce un Paese in cui è l’armonia che deve essere messa in comune fra gli abitanti. Non è la stessa cosa della res pubblica, si tratta di un concetto diverso e, se la psiche umana tende a identificare le cose per il nome che esse portano, è evidente che il dialogo interculturale tra un Occidentale e un cinese, che abbia come oggetto il termine “repubblica”, risulta complesso e difficile.
Potremmo citare un numero enorme di esempi che ci dimostrano come sia improbabile e quasi sempre impossibile che la scrittura alfabetica e quella ideografica possano esprimere uno stesso concetto con il medesimo significato per chi legge. Dunque, dialogo complesso e difficile, dicevo, fra chi usa un sistema di scrittura o l’altro.
Ma per quanto sia difficile, essendo il dialogo necessario se ci si vuole intendere, deve essere possibile. Come? Studiando. O meglio studiando l’uno le caratteristiche dell’altro e viceversa, e cercando di trovare non i punti che dividono ma quelli che uniscono.
Di Isaia Iannaccone*
**Isaia Iannaccone, nato a Napoli, chimico e sinologo, vive a Bruxelles. Membro dell’International Academy of History of Science, è specialista di storia della scienza e della tecnica in Cina, e dei rapporti Europa-Cina tra i secoli XVI e XIX. È autore di numerosi articoli scientifici, di trattati accademici (“Misurare il cielo: l’antica astronomia cinese”, 1991; “Johann Schreck Terrentius: la scienza rinascimentale e lo spirito dell’Accademia dei Lincei nella Cina dei Ming”, 1998; “Storia e Civiltà della Cina: cinque lezioni”,1999), di due guide della Cina per il Touring Club Italiano e di lavori per il teatro e l’opera. Ha esordito nella narrativa con il romanzo storico “L’amico di Galileo” (2006), best seller internazionale assieme al successivo “Il sipario di giada” (2007, 2018), seguiti da “Lo studente e l’ambasciatore” (2015), “Il dio dell’I-Ching” (2017) e “Il quaderno di Verbiest” (2019)