Il 31 ottobre 1982, cinque anni prima della sua morte, Andy Warhol, per dirla con “Vogue” del 24 agosto 2017, «posò le sue valigie in Cina». Era stato invitato da Alfred Siu (Xiu), un businessman che gli aveva commissionato alcuni ritratti per l’iClub di Hong Kong, esclusivo ritrovo per ricchi, nel quale già campeggiavano le effigi del principe Charles e di Lady Diana.
Il viaggio cinese del papa della pop-art, durò undici giorni; il programma prevedeva una sosta a Hong Kong, allora ancora colonia britannica, poi uno spostamento a Pechino per visitare la Città Proibita e la Grande Muraglia, e infine il rientro a Hong Kong per il volo di ritorno negli USA. Nel suo tour, Warhol fu accompagnato da alcuni amici fra cui il fotografo Christopher Makos – che era stato allievo di Man Ray – il quale successivamente pubblicò un libro con il reportage del viaggio (“Andy Warhol. China 1982”; nella riedizione del 2008 la prefazione è di Ai Weiwei).
Alcune delle molte foto in bianco e nero scattate in Cina dallo stesso Warhol riproducono in maniacale serie di quattro immagini per soggetto, cose e persone della vita quotidiana: ad esempio, una lattina usata, un contenitore stradale di spazzatura a forma di leone, un tratto delle mura perimetrali della Città Proibita, un cameriere d’albergo, etc. Le foto di Makos, invece, ci restituiscono il timido sorriso dell’artista americano in usuali situazioni turistiche, e banali appunti visivi delle strade che percorse e delle persone che incontrò; nulla, nessuna emozione suscitano le foto in confronto all’interpretazione che della Cina aveva già dato lo stesso Warhol che tra il 1972 e il 1973 aveva creato circa quattrocento ritratti del simbolo del Paese, ossia Mao Zedong, con le stesse tecniche di serigrafia e acrilico che aveva usato per replicare quasi all’infinito la Campbell’s Soup e Marilyn Monroe.
Andy Wharhol era ossessionato dal Grande Timoniere che egli interpretò in tutte le salse colorate possibili; il lavoro seriale che egli dedicò al creatore della Repubblica Popolare Cinese non fu dissimile da quello dei quasi tutti sconosciuti artisti cinesi che ritrassero Mao in un numero incalcolabile di dipinti, fotografie, cartamoneta, ricami, arazzi e statue, coltivando il culto della personalità caratteristico sia della cultura cinese che dell’iconografia comunista. Il successo che ebbero i ritratti di Mao firmati da Warhol fu immediato e, Cina esclusa, planetario. Tuttora sono fra gli oggetti artistici più ricercati dal mercato di arte contemporanea: uno di questi risalente al 1973 (127cm x 107cm), valutato da Sotheby’s 14 milioni di euro, è stato venduto nell’aprile 2017 a Hong Kong per 11,9 milioni di euro.
D’altronde, Hong Kong e Singapore sono le uniche realtà cinesi dov’è possibile – almeno fino a oggi – esporre i ritratti di Mao firmati Warhol. L’utilizzo del volto di Mao è ancora una questione delicata per i Cinesi; nel 2013, a Shanghai, una grande retrospettiva di Warhol fu amputata di dieci ritratti in serigrafia e in acrilico del Presidente; lo stesso è avvenuto nel 2017 in una esposizione a Pechino.
Del viaggio in Cina di Andy Warhol rimangono le fotografie sue e di Makos, e un aneddoto che sottolinea, ove mai ce ne fosse bisogno, la predilezione e l’eccitazione di Warhol per le cose in serie, per i multipli. Eccolo. A Hong Kong, nella boutique di Ascot Chang, allora il più celebre sarto della colonia, fu mostrato a Warhol un catalogo con tutti i quaranta possibili monogrammi da ricamare sulle camicie, da quelli più fini ed eleganti a quelli più kitsch; dopo attento esame, l’artista ordinò quaranta camicie ognuna delle quali aveva uno dei monogrammi proposti. Il suo capriccio da benestante fu definito un gesto pop…
Se la pop-art alla Warhol abbia contaminato la scena artistica cinese, è presto detto. Alla fine degli anni Ottanta, apparve in Cina il movimento Political Pop Art fondato e animato da Wang Guangyi, autore, fra l’altro, dei noti quadri della serie Great Criticism nei quali mescola l’iconografia dei protagonisti della Rivoluzione Culturale (soldati, contadini, operai, militanti) e quelli celebrativi di Mao, con i logo delle grandi marche occidentali che stavano iniziando a penetrare il mercato cinese: Chanel, Rolex, Nike, Coca Cola, Dior, Campbell’s, etc. I suoi quadri, in Occidente, raggiunsero quotazioni anche di due o tre milioni di dollari e oltre; il suo “Mao AO”, un trittico di grandi dimensioni rappresentante tre ritratti di Mao in un reticolo quadrettato, dipinto nel 1988, fu venduto a Londra nel 2007 per 2.036.000 sterline, pari, al cambio dell’epoca, a 4 milioni di dollari.
Altrettanta fortuna ebbero i seguaci di Wang, che, come lui, attaccarono artisticamente la politica rampante di Deng Xiaoping volta a modernizzare la Cina, miscelando la pop-art occidentale con il realismo socialista. Tra essi citiamo Yu Youhan che decora Mao e le icone rivoluzionarie con fiori e colori sgargianti oppure lo trucca da Marilyn, e Li Shan che fa sbocciare fiori fra le labbra del Mao giovane e del Mao vecchio; gli artisti, entrambi nati nel 1943, sono ben noti in Occidente, e sulla loro scia si è creato un filone commerciale con molti imitatori.
A coloro che si chiedono chi ai tempi d’oggi abbia raccolto l’eredità artistica di questi pittori cinesi e la scintilla creativa di Warhol, rispondo di getto: Mei Dean-E (Mei Dinghe), un artista nato a Taiwan nel 1954 da genitori provenienti dal continente. Pittura a olio, acquarello, incisione, découpage, fotografia, puzzle, istallazione, immagini numeriche, Mei utilizza con maestria, in modo compulsivo e ostinato, quasi tutti gli strumenti che un artista può avere a disposizione.
Professore all’Università Nazionale delle Arti di Taiwan, Mei non è soltanto un talentuoso artista, ma anche un teorico e studioso delle forme artistiche e della storia, e tutti i suoi interventi hanno alla base un discorso politico che tende a desacralizzare le forme canoniche dell’identità nazionale (personaggi politici, bandiera, biglietti di banca con le effigi dei padri fondatori della Repubblica, etc.) per rivisitare in forma critica, severamente critica, il mondo che lo circonda.
La storia di Taiwan – dalla cessione dell’isola ai Giapponesi del 1895, all’avvento dell’autoritario partito nazionalista Gumindang, alla legge marziale del 1947 e alla sua abolizione nel 1987, al boom economico, alla perdita di visibilità internazionale di Taiwan e la sua estromissione dall’ONU per l’avvento della Repubblica Popolare Cinese sulla scena mondiale, alla democratizzazione degli anni Novanta – Mei rivisita gli shock politici che hanno scosso l’isola e crea visioni e forme che interrogano. La sua prima opera a scatenare riflessione critica, la presenta a ventotto anni: è il “National Flag” (Vessillo Nazionale), un olio su tela (64 cm x 84 cm) che rappresenta la bandiera di Taiwan tenuta al muro con delle puntine da disegno, e con gli angoli ripiegati come se qualcuno avesse tentato di farne un aereo di carta: un simbolico e forte richiamo al diritto all’evasione da una gabbia stretta e soffocante com’era a quell’epoca la società militarizzata taiwanese. Il motivo dell’aereo come simbolo del desiderio di fuga dalla mancanza della libertà e dall’indottrinamento della gioventù, ritorna spessissimo nelle opere di Mei Dean-E come, ad esempio, nella sua rivisitazione del testo sacro del Guomindang, “I tre Principi del Popolo” di Sun Yat-sen (primo presidente della Repubblica dopo la caduta della dinastia Qing): un quadro (62 cm x 82 cm) nel quale sono rappresentate due pagine del libro fondatore della nuova Cina, macchiate e invecchiate, piegate ad aereo; sottintendendo che Sun Yat-sen nei suoi principi aveva postulato ben altro che la dittatura, il titolo che Mei dà a quest’opera la dice lunga sulle sue intenzioni di critica politica: “It Is a Right for the People to Rebel” (Ribellarsi è un diritto del popolo).
Nel 2014, il Museo delle Belle Arti di Taipei consacrò Mei Dean-E, artista scomodo ma geniale, con una grande retrospettiva e un ricco catalogo; per l’occasione vennero esposte quattrocento delle sue opere, una sorta di antologia visiva ed emozionale del suo intenso percorso di artista, e delle contaminazioni che avevano influenzato il suo proteiforme lavoro creativo fin dall’inizio. Ancora studente della facoltà di Belle Arti dell’Università della Cultura Cinese di Taipei, utilizzando tecniche miste, Mei Dean-E fu considerato il pioniere del dadaismo in Taiwan; le sue opere furono considerate subito “sovversive”, e Mei, il 1978 fu condannato a due mesi di prigione. Nel 1983 partì per gli Stati Uniti dove soggiornò dieci anni, maturando e creando. È negli USA che Mei incontrò gli artisti della pop-art e s’immerse nell’atmosfera di rivolta contro il potere e contro ogni forma di dominio politico ed economico che caratterizzò, nell’America di quegli anni, diversi campi dell’arte comprese la musica e la cinematografia.
Al suo rientro a Taiwan, Mei accentuò la carica caustica delle sue opere. Nel 2000, invitato alla quinta Biennale d’Arte Contemporanea di Lione, presentò un’opera dal titolo “Don’t Rush, Be Patient” (Non avere fretta, sii paziente): un grande biglietto di banca in perle, con sopra il volto ridanciano di Chiang Kai-shek; l’Ufficio di Rappresentanza di Taipei in Francia, (la Repubblica di Cina, ossia Taiwan, dopo l’estromissione dall’ONU non ha più ambasciate vere e proprie che in pochi Paesi che la riconoscono), tentarono di fare proibire l’esposizione dell’opera di Mei dalle autorità francesi, ma senza successo.
Quanto alla Repubblica Popolare Cinese nella quale Mei avrebbe voluto esporre, essa ha da sempre chiuso le porte all’artista. Se gli si chiede se amerebbe presentare i suoi lavori in Cina continentale, lui risponde serafico: «Non rigetto l’idea ma non è una mia priorità». I suoi ammiratori e i suoi sostenitori, con aria di sufficienza, non perdono occasione per affermare che Mei Dean-E non è mai stato censurato in Cina…, lasciando in sospeso, senza pronunciarla, la fine della frase: …perché lì non ha mai esposto.
Di Isaia Iannaccone*
**Isaia Iannaccone, nato a Napoli, chimico e sinologo, vive a Bruxelles. Membro dell’International Academy of History of Science, è specialista di storia della scienza e della tecnica in Cina, e dei rapporti Europa-Cina tra i secoli XVI e XIX. È autore di numerosi articoli scientifici, di trattati accademici (“Misurare il cielo: l’antica astronomia cinese”, 1991; “Johann Schreck Terrentius: la scienza rinascimentale e lo spirito dell’Accademia dei Lincei nella Cina dei Ming”, 1998; “Storia e Civiltà della Cina: cinque lezioni”,1999), di due guide della Cina per il Touring Club Italiano e di lavori per il teatro e l’opera. Ha esordito nella narrativa con il romanzo storico “L’amico di Galileo” (2006), best seller internazionale assieme al successivo “Il sipario di giada” (2007, 2018), seguiti da “Lo studente e l’ambasciatore” (2015), “Il dio dell’I-Ching” (2017) e “Il quaderno di Verbiest” (2019)