Ne dicevano di tutti i colori i giovani cinesi cento anni fa, per esempio che «l’adulterio è la prima di tutte le virtù, la pietà filiale il primo di tutti i misfatti». Era quello lo spirito iconoclasta dell’epoca che terrorizzava il tradizionalisti i quali si auguravano che fosse salvata per lo meno la «quintessenza» della civiltà cinese. L’avessero chiamata «colore cinese», potrebbero tranquillizzarsi dato che oggi ancora si pratica la «rettifica dei nomi» di confuciana memoria.
Ma un secolo fa era contro il confucianesimo che si scagliavano le pietre di parole mai udite prima perché era il confucianesimo l’icona da abbattere, un’impresa immane nella quale si impegnarono i più bei nomi dell’Intellighenzia dell’epoca e alla quale parteciparono sia quelli che furono considerati i «buoni» sia i «cattivi», quando un’altra ortodossia impose le sue etichette. Incerta però è ancora la sorte di Lu Xun che, da principe degli iconoclasti e feroce critico della «quintessenza» nazionale, diventò in seguito il santino improbabile del maoismo, ma oggi come oggi viene velatamente accomunato nella recente condanna del «radicalismo novecentesco».
Per la Cina, comunque, il Novecento è stato forse il secolo più denso e «radicale» della sua storia: l’invasione giapponese, il fronte unito patriottico, la guerra civile, il 1949, la fondazione della Repubblica Popolare . Fu allora che risuonarono canti idolatri come «L’Oriente è Rosso, la Cina ha partorito un Mao Zedong», ma niente in realtà si quietò.
E gli iconoclasti, cosa potevano mai fare? Vale per tutti la parabola di Guo Moruo. Poeta ma anche storico eminente e archeologo, nel febbraio del 1920 scriveva questi versi paragonandosi a un mostro distruttore della mitologia cinese: «…Io sono il Cane celeste/ Io ingoio la luna/ Io ingoio il sole/ Io ingoio l’universo intero/Io sono io!…Io corro/ Io urlo/ Io infiammo/…Io lacero la mia pelle/Io divoro la mia carne/ Io succhio il mio sangue/ Io sbrano il mio cuore/ Io sono io!/ Il mio io esploderà!» Da iconoclasta divenne idolatra e pubblicò ventuno Odi , le prime due in onore di Stalin e le seguenti unicamente di Mao.
E gli anarchici? Pensare che erano una delle componenti più attive all’epoca del 4 Maggio, che non si limitavano a scagliare pietre ma erano passati all’azione fondando a Pechino una Associazione di studio e lavoro di mutuo soccorso, perché volevano abolire la differenza tra lavoro manuale e intellettuale.
Tutti ogni giorno dedicavano quattro ore al lavoro, quattro allo studio: lavoravano in lavanderie, in copisterie, vendevano per le strade frutta e tofu. Erano presenti anche in altre città e regioni, nello Hunan , per esempio, erano attivi nei sindacati, lo attesta Mao nel suo famoso Rapporto sul movimento contadino.
Di loro si è persa ogni traccia, e per tutti risponde Ba Jin, lo scrittore che si identificò con l’anarchia al punto che scelse come prima sillaba del suo pseudonimo quella di Bakunin, come seconda l’ultima di Kropotkin, sopportato più o meno fino al 1966, alla rivoluzione culturale, poi condannato come belva anarchica, processato dalle masse popolari in uno stadio gremito e alla fine, avendo riconosciuto i suoi errori, riabilitato e morto nel suo letto all’età di 101 anni. Era possibile che pensieri anarchici e iconoclasti potessero protrarsi, magari con meno furia e più«distinguo», oltre la ormai mitizzata e spesso distorta stagione della distruzione dei vecchi idoli del 1919?
La Cina sembrava avesse finalmente trovata una nuova stabilità adottando l’ideologia marxista-leninista. Si supponeva che il futuro non avrebbe più visto quelle violente sommosse contadine che avevano per millenni punteggiato la sua storia, un continuo voler ribaltare la scena da parte di un popolo in armi che veniva alla fine sempre deluso perché il capo dei rivoltosi, qualora avesse trionfato, abbatteva la dinastia regnante e ne fondava un’altra.
Che questi ribelli, dai Turbanti Gialli ai Sopraccigli Rossi, fossero portatori di idee di rinnovamento è assai dubbio. Certo, capitava che frantumassero qualche statua e distruggessero dei templi, ma la loro era soltanto la furia del momento, non il gesto iconoclasta di chi quelle icone non condivide.
Ogni rivolta era un avvenimento che si rifaceva e confermava l’antica credenza del «Mandato del Cielo» a governare e la legittimità a rovesciare con la violenza il sovrano che l’avesse disatteso.
Questo era il «cambiamento del Mandato», ossia ge «cambiamento» e ming «mandato» ( o più precisamente «destino») : oggi in cinese per significare «rivoluzione» nel senso moderno, si usa questo termine antico, ge ming, che ha pregnanze profonde, un’eco di turbolenze e millenarismi.
In passato però nessuno aveva mai pensato che il cambiamento dovesse interessare anche quello che si supponeva il Cielo volesse, cioè un contenuto nuovo del Mandato, non soltanto un nuovo affidatario.
Forse, allora, le uniche vere rivoluzioni che si sono verificate in Cina sono state quelle in cui si è cercato di intervenire cambiando i termini del Mandato nel tentativo di progettare società nuove, alternative.
Così è stata una vera rivoluzione quanto mai iconoclastica, quella dei Taiping, il Celeste Impero della Grande Pace, scoppiata a metà Ottocento che, per farla breve, intendeva sostituire Confucio con Gesù; quella del 1911, subito fallita ma che agli inizi del secolo aveva lasciato in eredità la novità assoluta di una forma statale repubblicana; quella del 4 Maggio 1919, che non ha cambiato nessun Mandato Celeste ma ha posto tutte le premesse per poterne configurare tanti, alternativi e diversi; quella del 1949, dove i comunisti hanno trionfato sui nazionalisti e pareva che finalmente fossero cambiati sia l’assegnatario del Mandato sia i suoi contenuti.
E si potrebbe proseguire domandandosi se la Rivoluzione culturale, quella delle Guardie Rosse del 1966, fu una rivoluzione o piuttosto una catastrofe, anche se per la prima volta si riconobbe a cultura e a rivoluzione una posizione paritetica, almeno a parole.
Comunque non di «rivoluzione» si tratta quando non mutano contemporaneamente assegnatario e mandato e forse oggi, per l’eco violenta e iconoclastica che suscita, ge ming è concetto desueto per un paese che prospera in una «obbediente autonomia».
Sono passati gli anni ma Confucio è ancora tra noi, con i suoi Istituti culturali sparsi nel mondo, con gli omaggi cultuali che gli vengono resi in patria, come se il furore iconoclasta del Movimento 4 Maggio non fosse servito a nulla. Ne sanno qualcosa gli studenti di Tian’anmen che nel giugno del 1989 avevano tentato di cambiare sia assegnatario sia Mandato, i quali ebbero la sorpresa di vedere alla televisione una certa signora Kung, novantacinquesima discendente di Confucio, che li condannava per la loro mancanza di pietà filiale.
Di Renata Pisu*
*Ha frequentato i corsi di lingua cinese e di storia della Cina moderna all’università di Pechino fino agli inizi della Rivoluzione Culturale. Da allora svolge la professione di giornalista con particolare attenzione ai problemi dell’Asia Orientale. È stata corrispondente de La Stampa a Tokyo dal 1984 al 1988. Dal 1990 è inviato speciale de La Repubblica su tutti i fronti delle guerre non dichiarate e delle catastrofi annunciate, dalla Bosnia al Ruanda, dal Kuwait alla Cambogia, dal Bangladesh all’Indonesia. Ha tradotto dal cinese numerose opere di narrativa contemporanea ed è autrice di saggi sulla società cinese pubblicati su varie riviste italiane e straniere.
[pubblicato su il manifesto]