Perché la strategia dell’Occidente sul Pacifico non funziona

In Relazioni Internazionali by Redazione

Sebbene tutte le nazioni condividano l’interesse a promuovere una regione pacifica, sicura e prospera, gli Stati indipendenti del Pacifico non condividono necessariamente le stesse prospettive geostrategiche delle grandi e potenti economie dell’Occidente industrializzato. Articolo pubblicato in collaborazione con 9DashLine

Dopo quasi un decennio di “intensificazioni“, “rialzi“, “reset” e “intensificazioni generalizzate“, i governi occidentali sembrano convinti che “more of the same”, cioè fare di più delle stesse azioni, possa aumentarne l’influenza nel Pacifico. Persino la Nuova Zelanda e l’Australia, che di recente hanno cercato di articolare qualcosa di diverso, rimangono concentrate sull’attuazione di ulteriori nuove iniziative, più aiuti e più presenza.

I critici hanno sottolineato le inadeguatezze strutturali, la mancanza di ambizione e persino i fallimenti di questo approccio, ma il suo limite più grande è che rimane sostenuto da due idee di partenza sbagliate.

Gli interessi del Pacifico non sono un proxy degli interessi dell’Occidente

La prima idea sbagliata è che gli interessi del Pacifico siano un proxy degli interessi occidentali. Sebbene tutte le nazioni condividano l’interesse a promuovere una regione pacifica, sicura e prospera, gli Stati indipendenti del Pacifico non condividono necessariamente le stesse prospettive geostrategiche delle grandi e potenti economie dell’Occidente industrializzato.

Il cambiamento climatico rivela la divergenza più evidente. La maggior parte delle nazioni occidentali non è stata in grado di intraprendere le necessarie azioni di mitigazione a livello nazionale. Continuano a fare affidamento su fonti energetiche non rinnovabili, con diversi Paesi che rilasciano nuovi permessi di esplorazione ritenuti necessari per il proprio fabbisogno energetico. Nessuno si è fatto avanti per sostenere lo strumento regionale adatto al Pacifico per il finanziamento dell’adattamento climatico, il Pacific Resilience Facility. Si continuano invece a sostenere strumenti globali, come il Fondo verde per il clima che, anche dopo 12 anni di attività, sta ancora lavorando con le nazioni del Pacifico su “progetti di preparazione“.

Il rifiuto strategico della Cina come partner economico chiave è un altro esempio. Gli Stati indipendenti del Pacifico difendono ferocemente la loro sovranità e il diritto di scegliere i partner economici e di sicurezza. L’Occidente cerca di mantenere gli accordi di sicurezza “in famiglia” e allo stesso si oppone ai prestiti e agli investimenti della Cina: così facendo cerca di negare alla regione un partner economico di cui ha bisogno.

Le recenti iniziative guidate dall’Occidente, come AUKUS, la Indo-Pacific Strategy, and la Partners in the Blue Pacific, rappresentano un terzo esempio di divergenza. Tutte queste iniziative consegnano al Pacifico un fatto compiuto senza alcuna consultazione. Non tengono conto dei processi e delle prospettive regionali del Pacifico, pur sostenendo di lavorare nell’interesse della “famiglia” del Pacifico e di sostenere le priorità del Pacifico in modo più efficace ed efficiente.

L’aiuto occidentale non è necessariamente superiore all’assistenza cinese

La seconda convinzione errata è che l’attuale modello di aiuti esteri dell’Occidente sia efficace e superiore all’approccio adottato dal suo rivale, la Cina.

Nell’ultimo decennio, i governi occidentali hanno accorpato agenzie di aiuto indipendenti negli uffici degli Affari esteri, con il risultato di rendere meno efficace l’assistenza allo sviluppo. Le agenzie occidentali continuano a operare con un approccio deficitario, pensando per il Pacifico piuttosto che con il Pacifico. I loro processi burocratici sono spesso impenetrabili e molte continuano a promettere troppo. Lo stesso paradigma degli aiuti occidentali è diventato simile a un gigantesco schema Ponzi, in cui una parte significativa degli aiuti viene intascata dagli intermediari degli aiuti – organizzazioni internazionali, istituzioni finanziarie internazionali e grandi società multinazionali che si consumano a vicenda in una battaglia per gli “aid dollars”.

Se da un lato la Cina ha istituito un’agenzia di aiuti indipendente, dall’altro offre un’alternativa agli aiuti esteri sotto forma di grandi e complessi investimenti commerciali. Questi investimenti non sono coordinati dallo Stato, ma da una serie di finanziatori cinesi con una propensione ai megaprogetti che può essere ricondotta al modo in cui la Cina si è sviluppata. Questi finanziatori sono disposti a lavorare in contesti ad alto rischio e ad alta remunerazione e ad accettare progetti complessi che nessun altro vuole. Le nazioni occidentali sono state immerse nel business degli aiuti per così tanto tempo che potrebbero non capire come funzionano questi progetti.

Sebbene le infrastrutture costruite dalla Cina siano criticate per essere al di sotto degli standard, rimangono l’unica opzione reale. In realtà, le imprese statali cinesi realizzano anche gran parte delle infrastrutture finanziate dall’Occidente: una recente ricerca ha dimostrato che detengono i contratti per l’80% dei progetti infrastrutturali della Banca asiatica di sviluppo (ADB) in Papua Nuova Guinea. I cinque maggiori donatori della ADB sono Giappone, Stati Uniti, Cina, India e Australia, con la Cina come maggior finanziatore.

I tentativi dell’Australia di diventare il partner di riferimento per il finanziamento delle infrastrutture nel Pacifico non si sono ancora concretizzati. Invece di realizzare i progetti trasformativi e di lunga durata promessi nel 2018, ora ci sono solo 12 progetti approvati in soli cinque Paesi del Pacifico.

Molte altre critiche mosse alla Cina potrebbero essere rivolte anche all’Occidente. Alla Cina viene rimproverato di usare i prestiti e il debito per creare dipendenza economica, ma il Pacifico è già la regione più dipendente del pianeta – dipendente dagli aiuti occidentali. La Cina viene spesso criticata perché non utilizza la manodopera locale del Pacifico, ma i progetti di aiuto occidentali fanno lo stesso, trascurando la manodopera locale e le agenzie per i propri specialisti, che pagano da quattro a sette volte di più rispetto alle loro controparti del Pacifico.

È tempo di un ripensamento più profondo

I leader del Pacifico sono ben consapevoli delle sfide e delle opportunità che l’ambiente geopolitico presenta, come sottolineato qui, qui e più recentemente qui. Purtroppo, la competizione geopolitica non riguarda chi conosce meglio la regione e le sue istituzioni, chi sostiene i migliori sforzi locali per fornire servizi o chi ha le politiche di mitigazione del clima più ambiziose. Con l’attuale traiettoria, questa competizione sembra destinata ad aumentare la militarizzazione e la dipendenza nel Pacifico.

In base alle due idee sbagliate fondamentali sopra descritte, continuare a fare la stessa cosa non è la risposta. Invece di aumentare l’influenza, le intenzioni dell’Occidente saranno sempre più messe in discussione e il loro posto per procura al “tavolo della famiglia” del Forum delle isole del Pacifico diventerà meno sicuro. Qualsiasi spostamento della bilancia dell’influenza verso l’Occidente sarebbe più ragionevolmente attribuito al disimpegno della Cina nel Pacifico che a una deliberata strategia occidentale.

Le nazioni occidentali, in particolare l’Australia e la Nuova Zelanda, hanno sostenuto il Pacifico in momenti critici e potrebbero farlo ancora. Ma ora è tempo di lasciare queste idee sbagliate nel passato e di andare avanti con un dialogo più onesto e maturo e con un ripensamento radicale dell’approccio occidentale agli aiuti esteri.

Le autrici

Meg Taylor DBESoli Middleby

Meg Taylor DBE è stata la prima donna segretario generale del Forum delle Isole del Pacifico e la vicepresidente fondatrice dell’Ufficio del consulente ombudsman per la Società finanziaria internazionale. Attualmente fa parte del Consiglio di amministrazione di Nambawan Super e del Programma di sviluppo sostenibile della Papua Nuova Guinea, è membro del Comitato consultivo internazionale della Banca asiatica per gli investimenti infrastrutturali ed è consulente del governo di Vanuatu per la richiesta di adesione alla Corte internazionale di giustizia sui cambiamenti climatici. 

Soli Middleby è stata diplomatica australiana nel Pacifico per 15 anni e ha ricoperto il ruolo di Chief Executive Officer dell’Australia Pacific Training Coalition. Attualmente è dottoranda presso il Dipartimento di Politica e Relazioni Internazionali dell’Università di Adelaide e broker di partenariato accreditato.