Per gli stranieri in Cina torna il tempo dell’autocritica

In by Gabriele Battaglia

Peter Dahlin, svedese di 35 anni, dopo essere stato arrestato, aver compiuto la propria autocritica alla tv di Stato, è stato rilasciato ed espulso dalla Cina. Il suo arresto e la sua vicenda hanno riportato l’attenzione sulla pratica dell’autocritica, piuttosto comune a Pechino. Questa volta, però, non è l’unico, perché i nuovi protagonisti di questi nuovi show della repressione, ultimamente, sono stranieri. Liu Cixin è forse lo scrittore cinese di fantascienza più famoso al mondo. Il suo libro, il primo di una trilogia, The Three-Body Problem, è stato tradotto in inglese e ha trovato una straordinaria popolarità, da quando Obama ha fatto sapere di averlo letto con molto interesse. Il libro di Liu prende avvio ai tempi della Rivoluzione Culturale. La storia comincia proprio con una pubblica gogna, durante la quale un vecchio professore di scienze è chiamato a fare autocritica di fronte a una folla inferocita di guardie rosse, nel campus universitario.

Il vecchio però non abiura, anzi: risponde con raziocinio ai suoi inquisitori, moglie compresa, non concede alcuna soddisfazione al suo pubblico e viene infine pestato a sangue, fino a morire lì, su quel palchetto improvvisato. Da questa vicenda prende l’avvio la storia di Liu Cixin: quell’evento costituirà una delle chiavi di lettura e di soluzione dell’intera vicenda raccontata dallo scrittore. Un segnale molto forte, chiaro, di come in Cina l’oblio e l’omissione di una riflessione pubblica sulla Rivoluzione Culturale, abbiano finito per creare un immaginario fatto di violenza, terrore e irrazionalità.

L’autocritica è da considerarsi un elemento chiave nel concetto di giustizia in Cina: il colpevole, all’interno di un sistema penale inquisitorio, non solo deve essere punito, ma deve anche essere rieducato e ammettere le proprie colpe di fronte al popolo. La trasformazione del colpevole, in persona che ammette i propri errori, deve essere rapida e mostrata a tutti. Si tratta di una pratica che è ancora presente e che ai nostri giorni il Partito ha trasformato in vere e proprie confessioni pubbliche attraverso i canali della televisione nazionale.

Qualcosa però, negli ultimi mesi, sembra essere cambiato, in una spirale di arresti, repressioni e autocritiche pubbliche, che stanno preoccupando e non poco le organizzazioni internazionali che si occupano di diritti umani e alcune ambasciate straniere nella capitale cinese.

Ultimamente, infatti, in televisione a chiedere scusa e ad ammettere colpe, sono gli stranieri.

Il primo in ordine di tempo è stato il britannico Peter Humphrey, accusato di aver ottenuto illegalmente i dati di alcuni cittadini cinesi, per poi «venderli» alle compagnie farmaceutiche. La sua «confessione pubblica» avvenne il 27 agosto del 2013, proprio nel mezzo di uno scandalo clamoroso, quello della Glaxo, multinazionale del farmaco, colpita in Cina da una multa storica a seguito di una violenta campagna anti corruzione nel settore sanitario. Humphrey, e la moglie, erano stati arrestati in un’indagine parallela, che appariva strettamente connessa con quella riservata all’azienda britannica. Humphrey apparve in televisione, ammettendo le proprie colpe e finendo per chiedere scusa al popolo cinese. Nel giugno del 2015 è stato liberato, per motivi di salute, ed è potuto tornare in Gran Bretagna. La moglie, a quanto risulta, è ancora in carcere.

Peter Dahlin ha 35 anni, è svedese. Da tempo vive in Cina, dove segue i lavori di una Ong, la Chinese Urgent Action Working. A inizio gennaio doveva spostarsi in Thailandia, ma giunto all’aeroporto di Pechino è stato preso in consegna dalla polizia. La sua compagna, una ragazza cinese, è sparita (e ad oggi non è ancora stata ufficializzata la sua probabile reclusione). Sono state le stesse autorità cinesi a confermare che si trattava di un arresto. L’ambasciata svedese si era saputa muovere per tempo, chiedendo subito informazioni al ministro degli esteri cinese. Nel frattempo la stampa locale e i netizen, sottolineavano la giustezza dell’operazione, perché da tempo le Ong straniere sono finite nel mirino del Partito comunista, che le accusa di essere un covo di potenziali sobillatori dell’ordine costituito. Si tratta di sospetti che non sono campati in aria: in molti paesi le Ong rappresentano davvero un neanche tanto velato tentativo da parte di paesi stranieri, Usa su tutti, di tenere pronte soluzioni alternative allo stato costituito, basti pensare all’Ucraina, ma non tutte le Ong sono uguali. Dahlin, inoltre, è affetto dal morbo di Addison, una malattia che comporta un’insufficienza surrenale cronica e ha bisogno di cure e controlli quotidiani.

La prima mossa cinese è stata quella di permettere ai diplomatici svedesi di andarlo a trovare in carcere, potendo quindi constatare le sue buone condizioni e un trattamento di rispetto (Dahlin è stato messo in una stanza singola e poteva assumere le medicine di cui aveva bisogno grazie a un frigo situato nella cella).

Poi il colpo a sorpresa: Dahlin è apparso sulla televisione nazionale, chiedendo scusa al popolo cinese, di cui avrebbe «ferito i sentimenti», confermando per altro le accuse che gli erano state mosse: aver ricevuto finanziamenti sospetti e aver lavorato per creare confusione in Cina. Ieri è stato rilasciato ed espulso.

E prima di lui, Gui Minhai, uno dei librai scomparsi recentemente a Hong Kong, nato in Cina ma di nazionalità svedese, era comparso in tv per confessare, addirittura, un reato commesso nel 2004 (un omicidio per guida in stato di ubriachezza). Le caratteristiche grottesche di alcune di queste «confessioni» visibilmente poco credibili, non sembrano intaccare, però, il potere di Xi Jinping.

Perché dunque questa nuova stretta sulle attività di stranieri in Cina? È possibile leggere questi eventi come una sorta di avvertimento alla comunità internazionale che vive in Cina? Di sicuro c’è la volontà da parte del Partito comunista di mostrare che nella Cina contemporanea anche gli stranieri devono stare attenti ai loro comportamenti: spesso i laowai (stranieri in cinese, ndr) in Cina si comportano come se per loro le leggi fossero altre o come se fossero esenti da quelle dello Stato cinese.

È altrettanto vero, però, che le decisioni di Pechino appaiono in alcuni casi, come l’espulsione della giornalista francese Gauthier, sproporzionate rispetto alla critica di partenza. Le recenti autocritiche indicano di sicuro un avvertimento: sotto Xi Jinping anche gli stranieri sono «cinesi».

[Scritto per il manifesto; foto credit: mashable.com]