In un clima da scontro totale che pare assumere sempre più le sembianze, quantomeno dal punto di vista retorico, di una nuova guerra fredda, qualsiasi spiffero rischia di congelare ancora di più le relazioni internazionali. Ed ecco allora che le parole di Li Zuocheng su Taiwan fanno già temere a molti lo scoppio di un terzo conflitto mondiale. Per fortuna, non siamo a questo punto. La Repubblica Popolare Cinese non invaderà domani mattina la Repubblica di Cina, alias Taiwan. Anche se, in questo mondo pieno di tendenze accelerate dalla pandemia da coronavirus, nulla può essere più escluso nell’un tempo lungo, oggi forse medio, periodo.
L'”EROE DI GUERRA” LI ZUOCHENG
Facciamo due passi indietro. Chi è Li Zuocheng? Si tratta di uno dei generali cinesi più alti in grado, capo del dipartimento di staff congiunto e membro della commissione militare centrale. Tanto per intenderci, sopra di lui ci sono solo Xi Jinping (presidente della commissione oltre che della Repubblica Popolare), e i due vice presidenti Xu Qiliang e Zhang Youxia. Li fa parte degli altri quattro membri della commissione insieme a Wei Fenghe (ministro della Difesa) Miao Hua e Zhang Shengmin. Ha 63 anni ed è un veterano del conflitto sino-vietnamita del 1979, durante il quale si è guadagnato il titolo di “eroe di guerra”. Ha rimpiazzato nel suo ruolo Fang Fenghui nell’agosto del 2018, con la fama di essere più “operativo” del predecessore, non fosse altro che l’episodio con Hanoi resta l’ultimo conflitto in cui la Cina è stata coinvolta.
LE PAROLE SULL’OPZIONE MILITARE
E che cosa ha detto Li Zuocheng? Ha dichiarato che “se la possibilità di una riunificazione pacifica sarà perduta, le forze armate popolari, con l’intera nazione, incluso il popolo di Taiwan, prenderanno tutte le misure necessarie per distruggere risolutamente eventuali trame o azioni separatiste“. Aggiungendo: “Non promettiamo di abbandonare l’uso della forza e ci riserviamo la possibilità di prendere tutte le misure necessarie per stabilizzare e controllare la situazione nello stretto di Taiwan”.
IL DISCORSO DI XI DEL 2 GENNAIO 2019
Non è la prima volta che Pechino lancia avvertimenti del genere. Nel suo discorso del 2 gennaio 2019, il presidente Xi Jinping disse più o meno la stessa cosa, dicendo di “non poter promettere di rinunciare all’uso della forza”, riservandosi l’opzione di utilizzare “qualsiasi misura fosse necessaria” per raggiungere la riunificazione e prevenire l’indipendenza di Taiwan. Un discorso che aveva finito, insieme alle proteste di Hong Kong, per favorire la campagna elettorale identitaria di Tsai Ing-wen e del DPP per le elezioni dello scorso gennaio.
LA CORNICE DEL DISCORSO DI LI: IL 15ESIMO ANNIVERSARIO DELLA LEGGE ANTI SECESSIONE
Interessante sottolineare le coordinate temporali e spaziali del discorso di Li, arrivato nella Grande Sala del Popolo di Pechino, in occasione del quindicesimo anniversario dell’entrata in vigore della legge anti secessione approvata nel 2005. Una legge che prevede l’intervento militare contro Taiwan in caso di una tentata dichiarazione di indipendenza. Cosa che, in realtà, non sembra essere all’orizzonte. Tsai, spesso descritta come filo indipendentista, agisce in realtà già da capo di un governo separato sotto l’ombrello (mal sopportato dal nazionalismo taiwanese) della Repubblica di Cina. Ed è una sostenitrice dello status quo: insomma, non ha l’intenzione di dichiarare l’indipendenza come “Repubblica di Taiwan”, linea invece portata avanti da alcuni piccoli partiti dell’isola, popolari soprattutto tra gli elettori più giovani.
PAROLE DIVERSE DA QUELLE DI LE KEQIANG E LI ZHANSHU
Tenendo dunque conto dell’occasione e degli importanti e simbolici appuntamenti appena conclusi, le “due sessioni” a Pechino e il secondo insediamento di Tsai a Taipei, appare chiara la portata retorica dell’avvertimento di Li. Allo stesso tempo non si può non notare la linea diversa rispetto a quella del premier Li Keqiang, che nella conferenza stampa a chiusura della sessione annuale dell’assemblea nazionale del popolo aveva detto che Pechino intende promuovere “la riunificazione pacifica” della Cina. Rispettando il principio unica Cina e il consenso del 1992, “siamo pronti a parlare con qualsiasi parte politica”. Più o meno lo stesso, pur con sfumature diverse, ha detto anche Li Zhanshu, numero tre della scala gerarchica del PCC: “Finché esiste una minima possibilità di una risoluzione pacifica, faremo cento volte lo sforzo”, aggiungendo: “Avvertiamo severamente le forze indipendentiste e separatiste di Taiwan che il percorso di indipendenza di Taiwan conduce a un vicolo cieco. Qualsiasi sfida a questa legge (anti secessione del 2005, ndr) sarà severamente punita”.
LA REPLICA DI TAIPEI
Il governo di Taipei ha risposto tramite il Consiglio di Taiwan per le Relazioni con la Cina: “Il popolo dell’isola non sceglierà mai la dittatura, né si piegherà alla violenza”. Nella nota si specifica che Taiwan “non ha mai fatto parte della Repubblica Popolare Cinese in termini storici o di diritto internazionale” e “difenderà con fermezza la propria sovranità nazionale e la libertà democratica”.
LA FOTO DELLA MAPPA PLA E LE SPECULAZIONI IN TEMPI DI PANDEMIA
Le speculazioni su una possibile azione di Pechino su Formosa vanno avanti da mesi, sin dall’inizio dell’epidemia. O addirittura sin dalla vittoria di Tsai alle elezioni. Il 19 gennaio su Weibo è circolata una foto che ritraeva dei soldati cinesi in una grande stanza con al centro una mappa di Taiwan. C’è chi ritiene che, complice la pandemia, Pechino possa decidere di agire mentre il mondo è in altre faccende affaccendato, un po’ come fatto su Hong Kong.
LA CONTESA CON GLI USA
In realtà, c’è da considerare, come si diceva prima, che questi avvertimenti, scambi retorici o anche passaggi ed esercitazioni di navi cinesi e statunitensi sono piuttosto frequenti sullo Stretto. Insomma, le parole in quanto tali non bastano a far ritenere che ci si trovi di fronte a un’operazione militare imminente. Anche perché bisogna ricordare che gli Stati Uniti stanno usando un po’ tutti i capitoli territoriali-gestionali aperti per pungere Pechino nell’ambito della più ampia contesa che coinvolge le due superpotenze.
IL TRIPLO BINARIO RETORICO
Ci sono dunque tre binari retorici. Il primo è quello porta sull’altro lato dello Stretto, verso quella che Pechino considera una sua “provincia ribelle” e che, grazie al successo nella prevenzione della pandemia e al pressing americano (ma non solo) sul tema Oms, è salita sul palcoscenico globale come non le accadeva da tempo. E poi in ordine: Taipei sempre più vicina a Washington, Tsmc (leader nella produzione degli strategici semiconduttori) che annuncia un sito in Arizona e Tsai che offre accoglienza ai cittadini di Hong Kong. Il messaggio, complice il 15esimo anniversario delle legge anti secessione, è chiaro: “Non esagerate”.
Il secondo conduce all’esterno, verso quegli Stati Uniti che stanno per annunciare misure sul tema Hong Kong. Come a dire: “Siamo pronti a difendere i nostri obiettivi storici e strategici, il secolo dell’umiliazione è finito da un pezzo”.
Il terzo binario è puramente interno. Rinfocola e per certi versi tranquillizza il sentimento nazionalista cinese, confermando che il PCC non consentirà che qualcuno gli metta i piedi in testa. E sposta strategicamente l’attenzione dalla crisi economica e occupazionale che sta colpendo la Cina.
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.