La strategia di Pechino nell’Europa centro-orientale mostra le prime crepe. Dall’invasione russa dell’Ucraina, la neutralità compiacente della Cina ha fortemente indisposto gli alleati regionali. Chi già percepiva nell’autoritarismo cinese gli echi lontani dell’odiato passato sovietico, oggi guarda con ancora maggiore sospetto la rinnovata (anche se a quanto pare non completa) intesa tra Pechino e Mosca.
Missili e lanciarazzi. La parata militare organizzata da Belgrado il 30 aprile scorso ha fatto da vetrina ad alcuni dei pezzi migliori dell’arsenale serbo. Uno sfoggio di muscoli che ha visto protagonista indiscusso il sistema antiaereo HQ-22, la versione cinese dei Patriot americani. I missili sono arrivati all’aeroporto Nikola Tesla di Belgrado venti giorni prima a bordo di sei aerei cargo Y-20 dell’”Esercito popolare di liberazione”. La spedizione militare, la più massiccia mai realizzata dalla Cina in Europa, ha un valore altamente simbolico: non solo perché è avvenuta sorvolando due paesi NATO (Turchia e Bulgaria). Non solo perché è la prima volta che un paese europeo si dota di missili made in China. Ma anche e soprattutto perché il debutto degli HQ-22 proietta ombre cinesi sulla guerra russo-ucraina. Di riflesso, anche sull’Europa centro-orientale.
Tra i paesi NATO è già allarme rosso. Preoccupa lo scenario di una crescente militarizzazione della regione, ma forse ancora di più la possibile intrusione dei radar cinesi nelle operazioni aeree dell’Alleanza. Tra le righe c’è naturalmente “l’amicizia senza limiti” tra Vladimir Putin e il presidente cinese Xi Jinping. Dall’invasione russa dell’Ucraina, la neutralità compiacente della Cina ha fortemente indisposto gli alleati regionali. Chi già percepiva nell’autoritarismo cinese gli echi lontani dell’odiato passato sovietico, oggi guarda con ancora maggiore sospetto la rinnovata (anche se a quanto pare non completa) intesa tra Pechino e Mosca. Dal canto suo, il governo di Xi Jinping indica l’avanzata della NATO verso Est come la vera causa della guerra in Ucraina. Quella nutrita per l’Alleanza è una diffidenza accumulata negli anni che nasce proprio lì: a Belgrado. Nel 1999 il fortuito danneggiamento dell’ambasciata cinese e la morte di tre concittadini durante l’operazione NATO Allied Force rappresentano una ferita ancora dolente oltre la Grande Muraglia.
La Cina come terza via?
Riaprendo vecchie cicatrici, la postura mantenuta da Pechino rispetto alla guerra rischia in realtà di sfilacciare ulteriormente i rapporti con un’area di importanza strategica. La Cina “dovrà fronteggiare gravi conseguenze” in caso di sostegno materiale a Mosca, ha avvertito il ministro degli Esteri ceco, Jan Lipavsky, visitando recentemente Washington.
Fino ad oggi la Cina ha fatto breccia tra quei paesi europei centro-orientali – come la Serbia – che nella partnership con Pechino avevano visto una terza via tra Stati Uniti e Russia. Chi invece – come l’Ungheria di Viktor Orban – in passato aveva condannato le violazioni dei diritti umani avvenute sotto l’egida del regime di Pechino nei primi anni Duemila, ha infine ceduto al fascino degli yuan. A favore della Cina ha giocato l’estraneità storica in una regione passata negli ultimi trent’anni dalla tutela moscovita all’allineamento politico-economico con Stati Uniti ed Europa occidentale. La crisi finanziaria del 2008 ha fatto il resto: Pechino ha sfruttato la distrazione dell’Occidente per posizionarsi nel quadrante compreso tra Europa occidentale e Russia con promesse di grandi investimenti. Nel 2012 ha lanciato il “Forum dei 16+1” (poi espanso a un 17+1 con l’ingresso della Grecia) per promuovere gli scambi con la regione. Soprattutto con gli Stati già membri dell’Unione Europea.
La disillusione e il pressing americano
Lo scopo era quello, da una parte, di aumentare la propria influenza nel blocco europeo corteggiando i paesi meno influenti. Dall’altra, come ci spiega Richard Turcsányi, direttore del Central European Institute of Asian Studies (CEIAS) di Bucarest, la Cina voleva assicurarsi uno spazio di importanza geostrategica tra Russia e Germania, nel caso l’UE non fosse riuscita a contenere un’ascesa di Mosca nella regione. Voleva, appunto. La strategia cinese nello scacchiere regionale ha cominciato a scricchiolare ben prima della crisi ucraina, e va interpretata in chiave di competizione non solo con l’Occidente ma anche con la Russia stessa.
Nella regione oggi prevale il disincanto per le molte promesse disattese. Mentre dall’istituzione della piattaforma 16+1 gli scambi commerciali sono aumentati dell’85%, la bilancia pende vistosamente a favore della Cina. Quando invece si prendono in esame gli investimenti cinesi nel continente, l’Europa centro-orientale ha assorbito solo il 3% del totale nel 2020. E di quella scarsa quantità, il 95% è finito in appena sei paesi: Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia in primis.
Il pressing americano ha contribuito a frenare l’attivismo cinese: su richiesta dell’amministrazione Trump, il colosso delle telecomunicazioni Huawei è stato virtualmente bandito dalla rete 5G di Romania, Polonia, Estonia, Lettonia, Repubblica Ceca, Slovenia, Slovacchia, Cipro, Bulgaria, Macedonia del Nord e Kosovo. Solo pochi giorni fa il parlamento ceco ha approvato una risoluzione che impone al ministero degli Esteri e al governo di valutare un ritiro dalla piattaforma. Nel febbraio 2021 l’intelligence dell’Estonia – che ospita la base aerea NATO di Ämari – ha denunciato i sempre più frequenti tentativi cinesi di dominare le tecnologie strategiche nel paese e nelle altre democrazie europee.
Il fattore Taiwan
Alla ricerca di alternative, molti dei player regionali stanno addirittura puntando sull’”altra Cina”: Taiwan. Noto è il caso della Lituania, colpita dalle ritorsioni commerciali di Pechino dopo aver rafforzato le proprie relazioni economiche con Taipei, ed uscita lo scorso anno dal 17+1.
Meno noto è il fatto che, nonostante gli ottimi rapporti con la Cina, l’Ungheria rappresenta la prima destinazione europea degli investimenti diretti esteri taiwanesi, grazie al suo forte sistema industriale: pari all’89,8% dei capitali destinati all’Ue nel 2020. Segno di come l’ex Formosa abbia un certo ascendente anche tra gli amici più intimi di Pechino.
Il rappresentante di Taiwan in Ungheria (centro) incontra il sindaco di Budapest Gergely Karacsony (destra) e il vice-sindaco della capitale (sinistra) nell’ottobre del 2020, per discutere di investimenti e cooperazione bilaterale.
Dopo l’ostracismo cinese contro Vilnius, Taipei ha promesso di investire nell’area centro-orientale con protocolli d’intesa che riguardano la sicurezza informatica, l’industria spaziale, la tecnologia dei catalizzatori, l’energia verde e i macchinari intelligenti, ma anche i veicoli elettrici, la digitalizzazione delle piccole e medie imprese e le smart city. Disillusi e con nuove opzioni a disposizione, è probabile che saranno sempre di più i paesi della regione a cercare occasioni nell’”altra Cina”.
I rischi per la Belt and Road
Per la Cina, il ripensamento delle capitali europee centro-orientali non potrebbe avvenire in un momento peggiore. Pechino ha bisogno della regione non solo per controbilanciare la crescente ostilità di Bruxelles – le politiche repressive contro le minoranze etniche cinesi nel 2021 hanno portato al congelamento dello storico accordo di investimento bilaterale Cina-UE.
Il motivo va ricercato nella drastica battuta d’arresto della Belt and Road Initiative, la strategia di politica estera con cui il governo cinese sostiene la penetrazione internazionale delle aziende nazionali attraverso la costruzione di grandi vie di comunicazione marittime e terrestri in Eurasia. Russia, Ucraina, Polonia e Bielorussia rientrano idealmente nel “New Eurasian Land Bridge”, visione di connettività su rotaia che dovrebbe collegare le coste cinesi al Vecchio continente fino a Rotterdam. Dai primi resoconti pare che la guerra abbia cominciato a dirottare i commerci verso le tratte marittime.
Un prolungamento del conflitto potrebbe richiedere un ruolo più centrale dell’Iran e della Turchia spostando a sud il flusso delle merci. In questo caso la linea ferroviaria Belgrado-Budapest – che la Cina si è impegnata a rinnovare, finanziare ed estendere alla penisola balcanica, fino ad Atene – servirebbe a creare uno snodo terra-mare in grado di aggirare la sezione settentrionale interessata dal conflitto. Ma servono lealtà e stabilità negli Stati europei coinvolti. Due caratteristiche che per il momento sembrano soddisfare pienamente solo Serbia e Ungheria.
Preso atto del problema, a Pechino si studiano possibili soluzioni. Secondo la stampa statale cinese, parlando di un’alleanza sino-russa, la campagna denigratoria americana starebbe compromettendo irragionevolmente la reputazione della Cina nell’area. Ad aprile, per la prima volta dall’inizio della guerra, l’inviata cinese per l’Europa centro-orientale, Huo Yuzhen, ha visitato la regione con lo scopo conclamato di eliminare “i malintesi” che adombrano il partenariato tra Pechino e Mosca. Non sappiamo l’esito della missione. Sappiamo però che al fianco di Huo c’erano studiosi ed eminenti think-tanker. Segno – secondo il China-CEEC Think Tank Network – della trasversalità dei colloqui, che hanno incluso ovviamente questioni politiche ed economiche, ma anche l’approfondimento degli scambi accademici. Conoscersi meglio permetterà di combattere le incomprensioni. Per il centro studi, la crisi ucraina anziché indebolire i rapporti tra la Cina e i paesi dell’Europa centro-orientale, rafforzerà la cooperazione in vari settori; “compresa l’assistenza umanitaria, la risoluzione dei problemi dei rifugiati, la riduzione della volatilità del mercato energetico e la sicurezza della catena di approvvigionamento”.
Il nodo dell’Unione Europea
Con il Covid e il rallentamento dell’economia mondiale, il buon fine del corteggiamento cinese dipenderà molto dalle mosse di Bruxelles: all’inizio della pandemia la propaganda e la diplomazia cinese degli aiuti sanitari hanno trovato campo aperto nel Vecchio Continente proprio grazie al mancato coordinamento tra i 27. Imparata la lezione, recentemente le autorità comunitarie si sono schierate con Vilnius in sede WTO e hanno annunciato l’istituzione di un fondo da 130 milioni di euro per supportare le aziende lituane colpite dalle misure punitive di Pechino.
Piccoli passi verso un gioco di squadra che potrebbe rendere anche meno appetibile una collaborazione con il regime “amico” di Putin. Le premesse ci sono tutte: lo dimostra la mancata partecipazione all’ultimo 16+1 dei leader di Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Bulgaria e Slovenia. Solo il mese scorso il parlamento ceco ha approvato una risoluzione che impone al ministero degli Esteri e al governo di valutare un ritiro dalla piattaforma. Tolte Ungheria e Serbia, nell’area centro-orientale dell’Europa Pechino è più isolata che mai. E il rischio di un misero “2+1” è dietro l’angolo.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Aspenia]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.