Cos’è Pechino è in coma se non una duplicazione avulsa dello Shanhai Jing, con gli animali mitici sostituiti dai capi del movimento studentesco cinese, rappresentati nelle loro inconciliabili stranezze, nevrosi, debolezze, passioni? L’analisi e i riferimerimenti oltre al racconto di quella piazza e dei vent’anni che ne sono seguiti.
Il coma, ovvero un locus amoenus
Sono trascorsi 5 anni dalla pubblicazione di Pechino è in coma di Ma Jian, quattro dalla sua comparsa in Italia a opera dell’editore Feltrinelli. Tra le numerose fiorescenze spontanee sorte sul corpo di uno dei più grandi romanzi della Cina odierna, vi è quella di aver consacrato in via definitiva il “coma” tra i luoghi ameni della letteratura mondiale. Condizione dell’anima, intervallo sublime tra la percezione elementare e la morte, a partire dalla parabola narrata da Ma Jian il coma è diventato spazio d’esistenza – un’esistenza alternativa eppure immanente – la cui evocazione implica una forma retorica specifica, addirittura un linguaggio.
Pechino è in coma narra l’epopea infernale di Dai Wei, studente pechinese vittima di un proiettile che lo ha privato di una porzione di cranio – e della possibilità di interagire con il mondo circostante – durante il “lontano” 4 giugno 1989 in piazza Tian’anmen. Un lunga tessitura di storie, brandelli di memoria recente e remota che ricompongono il quadro forsennato di una breve stagione di sanguinose proteste, e del sacrificio generazionale di cui Dai Wei e i suoi compagni di lotta rappresentano le vittime prescelte.
Si Di e ritorno alla vita dopo la vita
Agli occhi di chi avesse anche solo una vaga praticità con le Si Di, ovvero le Quattro nobili verità (fondamento della rivelazione di Siddharta Gautama), il contrappunto di simbologie, rimandi, criptazioni desunte dalla dottrina buddhista – che in Pechino è in coma mostra tutto il suo carico eversivo rispetto alla disciplina del partito unico – apparirà chiaro, a tratti addirittura didascalico. Il corpo di Dai Wei viene definito prigione, carcere di quella componente immateriale dell’individuo che sente, percepisce, articola una definizione del mondo, ma non riesce a interagire più con esso in maniera diretta.
Il Potere contro cui il protagonista si è scontrato non ha concluso l’opera di rimozione di quanto quest’ultimo è stato testimone. La storia continua a esalare dalle sue cellule atrofizzate, domanda udienza al suo quotidiano esercizio di memoria nel perpetuo dormiveglia della condizione di vegetale, fino a quando la pressione esercitata dal dolore non sarà tale da illuminare il viaggio verso il risveglio. Il ritorno alla vita, intesa come il sinodo di nuovo armonizzato di materia e spirito, è un passaggio che si verificherà alla chiusura del cerchio, quando la visione della propria “morte” – ovvero l’esito ultimo della propria esistenza prima del coma – spalancherà un varco per il ritono nel mondo.
Nella formulazione che vede il recupero della memoria corrispondere al recupero della vita – di una nuova vita – vi è più di una semplice metafora, bensì l’esemplificazione di una forma praticabile, quanto inesorabile, di lotta. Tuttavia fuori dal corpo morto di Dai Wei, accade esattamente il contrario. La memoria del massacro di piazza Tian’anmen subisce un’azione di continua inibizione, condotta con ogni mezzo lecito e illecito. Ma è proprio colui che è vittima del coma clinico a rappresentare l’unico individuo “sveglio” di fronte a una famiglia, a una generazione, a una nazione, a un intero popolo addormentato. Solo colui che è in coma, può cogliere il coma altrui.
Allo stesso tempo, Dai Wei è testimone privilegiato del presente, anzi ne è somma figurazione, così come lo sono buona parte degli oggetti che ne costellano il ricordo. I carrarmati che massacrano i manifestanti assiepati in piazza, prefigurano i bulldozer che stanno mangiando vivo, brano a brano, il quartiere in cui vive il giovane con sua madre; la cittadella resistente eretta in piazza Tian’anmen, spianata dai cingolati in nome della rivoluzione proletaria, è prefigurazione di quella parte di Pechino devastata in vista delle allora venture Olimpiadi cinesi. Infine, Dai Wei è piazza Tian’anmen: il suo corpo immobile, il suo stato comatoso sono il correlativo oggettivo di un’intera epoca.
Pechino è in coma testo sapienziale
Per più di un aspetto Pechino è in coma può definirsi libro sapienziale in senso lato. La rappresentazione dell’esempio di un’intera generazione diventa così il presupposto per la formulazione di un’etica collettiva rinnovata, proprio quando, per un tragico quanto fulmineo passaggio, la storia mostra il suo volto consueto: il Potere perpetua se stesso con ogni mezzo, senza appello.
La compensazione generazionale ne è una drammatica conferma, la stessa che nelle pagine di Ma Jian si materializza nei racconti degli ex compagni di lotta di Dai Wei, rientrati nelle maglie di un sistema fagocitante, addomesticati allo stimolo di un appetito che solo la suadenza del denaro e dell’esercizio – anche minimo – del potere può soddisfare. Esuli, mutilati, ergastolani torturati e ridotti alla pazzia, ma anche capitani d’industria in carriera, transfughi di successo, ricchi commercianti nella nuova Cina dell’economia socialista di mercato. Sono questi i compagni di piazza Tian’anmen, sono loro gli uomini e le donne in coma che piangono – più o meno inconsapevoli – Dai Wei, per contrappasso l’unico “risvegliato” della sua generazione.
Le declinazioni espresse dalla repressione per sedare la fame di rivolte future, ha il volto pacifico del benessere. In tale direzione, l’illuminazione di Dai Wei e il suo ritorno alla vita percettiva contravvengono in prima battuta a un divieto politico. Tuttavia il suo futuro è incerto e l’interrogativo che chiude Pechino è in coma è il sugello di un vuoto che non può esere ancora colmato. Quale resistenza si può dunque opporre al superiore svolgimento di una storia intesa come storia di una repressione individuale e collettiva, se non quella rappresentata dall’esasperazione tragica del bisogno di una cultura nuova, di una coscienza politica e civile rinnovata?
In questa direzione, il ruolo che svolge l’amore nelle pagine di Ma Jian è decisivo. Mai scisso in forme distinte (carnale vs. spiriturale), bensì sempre descritto quale fenomeno unitario, esso si materializza e agisce attraverso le figure di A-Mei e di Tian Yi (le due compagne di Dai Wei, le uniche due con le quali svilupperà una qualche esperienza approfondita del sesso femminile). Complementari e condizionali al processo di recupero memoriale al quale si sottopone il protagonista, sono loro le sacerdotesse del suo risveglio, testimoni attendibili di un passato defunto di cui Dai Wei possiede una memoria deviante. Una terza donna, l’infermiera Wen Nihao, sarà a sua volta emissario di quella riconciliazione con la sessualità praticata – descritta da Ma Jian con una pietà che ha forse pochi pari nella letteratura mondiale contemporanea -, premessa necessaria per ritessere una relazione con il mondo, quale luogo di coatta realizzazione di se stessi.
Come riscrivere lo Shanhai Jing
Le pagine dello Shanhai Jing, ovvero il Libro dei Monti e dei Mari, sono una traccia carsica che riemerge nello svolgimento del racconto con una continuità che ne diventa parte sostanziale. Terza parallela tesa tra memoria e presente, reliquia letteraria, è spesso l’unica misura del mondo che il protagonista è in grado di esprimere. Lo Shanhai Jing è il ponte tra la dimensione odierna e il passato mitico, lo stesso che Dai Wei – dall’alto della sua condizione di non-vivo – riesce ad attraversare in tutta la sua estensione. Rivolto a illustrare le sconfinate regioni e gli abitanti di una Cina arcaica e immaginaria, lo Shanhai Jing è la mappa per orientarsi in uno spazio solo in apprenza più contratto, ovvero in quel baratro memoriale in cui si agita la parola del protagonista.
Infine, cos’è il racconto condotto da Dai Wei, se non il tentativo di illustrare le meraviglie umane del movimento di piazza Tian’anmen? Cos’è lo stesso Pechino è in coma se non una duplicazione avulsa dello Shanhai Jing, con gli animali mitici sostituiti dai capi del movimento studentesco cinese, rappresentati nelle loro inconciliabili stranezze, nevrosi, debolezze, passioni?
*Danilo Soscia è nato a Formia nel 1979. Studioso di letteratura di viaggio, vive e lavora a Pisa. Ha esordito nella narrativa nel 2008 con Condòmino (Manni) e ha curato il volume In Cina. Il Grand Tour degli italiani verso il Centro del Mondo 1904-1999 (Ets). È stato anche redattore del quotidiano Pisanotizie.it.