Pechino si appresta a sviluppare il sistema di monitoraggio della circolazione su strada più esteso al mondo, ultimo gioiellino del vastissimo apparato di sicurezza cinese. Il progetto, come reso noto dal Wall Street Journal, prevede l’utilizzo di un sistema di identificazione elettronica che sfrutta la tecnologia RFID (dall’inglese Radio-Frequency IDentification, in italiano identificazione a radiofrequenza).
Secondo quanto previsto per la fase di lancio, a partire dal 1° luglio i veicoli in fase di registrazione verranno dotati di un chip da posizionare sul parabrezza che permetterà di tracciarne gli spostamenti attraverso radiofrequenze. I segnali verranno recepiti da appositi dispositivi di lettura istallati lungo la strada e tradotti in dati di identificazione (come il numero di targa e il colore dell’automobile) per poi essere trasferiti al ministero della Sicurezza Pubblica, il dicastero che supervisiona le forze di polizia e coordina il progetto in accordo con gli standard approvati dall’Istituto di ricerca per la gestione del traffico.
Questo vuol dire — precisano fonti del quotidiano finanziario — che la portata del sistema risulta più limitata rispetto a quella di un normale GPS, in grado di localizzare la posizione dell’automobile in maniera costante. In compenso, la nuova tecnologia sarebbe in grado di compensare le carenze dell’attuale network di sorveglianza attraverso normali videocamere, molto poco utile in caso di targhe false o nebbia. Le nuove regole — per il momento lasciate alla discrezionalità del proprietario del veicolo e attuate in maniera sperimentale in alcune città — diventeranno obbligatorie a partire dal 2019. Allora la Cina sarà il primo paese al mondo ad adottare il sistema su vasta scala, scavalcando Stati Uniti e Messico, dove la RFID viene già utilizzata ma in misura meno capillare.
Mentre la notizia è in attesa di una conferma ufficiale, una bozza fatta circolare pubblicamente dall’Istituto nel 2014 spiega che il piano ha lo scopo di risolvere il problema del traffico e prevenire gli attacchi terroristici per mezzo di veicoli, un fenomeno che “ha posto serie sfide e minacce alla vita sociale ed economica, in particolare alla sicurezza pubblica”. Due anni fa l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha nominato la Cina primo Paese al mondo per incidenti stradali, mentre nel 2013, un SUV si è schiantato sotto il ritratto di Mao, in piazza Tian’anmen, in quello che le autorità hanno definito un attentato di matrice uigura.
Ma, secondo Maya Wang di Human Right Watch, in realtà la tecnologia RFID rappresenta soltanto “un altro strumento nella cassetta degli attrezzi della sorveglianza di massa“. Al momento la Cina ha un sistema di videosorveglianza che conta già oltre 176 milioni di telecamere a livello nazionale e aspira a raggiungere quota 500 milioni entro il 2020. Con quasi 30 milioni di vendite l’anno, il mercato automobilistico cinese è il più vasto al mondo e costituisce un prezioso bacino di informazioni a cui attingere per assicurare l’agognata stabilità sociale. “Essere in grado di tracciare i veicoli aggiungerà sicuramente dettagli sostanziali alla catena di dati che [Pechino] ha già”, chiosa Wang. Tanto più se si considera che il monitoraggio del traffico non necessita misure tanto intrusive, fanno notare gli esperti.
Della stessa opinione Ben Green del Berkman Klein Center for Internet and Society dell’Università di Harvard, secondo il quale, considerata la natura autoritaria del regime cinese, “è davvero difficile immaginare che l’utilizzo principale del sistema non sia la sorveglianza delle forze dell’ordine e altre forme di controllo sociale“. Le nuove regole sembrano inoltre andare incontro alle ambizioni tecnologiche di Pechino, determinato a raggiungere il più presto possibile una propria sussistenza per evitare nuovi cortocircuiti sul genere sperimentato dalla società delle telecomunicazione ZTE, costretta a interrompere temporaneamente le regolari operazioni dopo aver perso i propri fornitori americani a causa delle sanzioni di Washington. Se le linee guida del 2014 dovessero essere confermate, infatti, il progetto si avvarrà esclusivamente di chip “made in China”.
[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.