Non prendete la moderazione come un segno di debolezza, non sottovalutate la determinazione del governo centrale cinese. L’ufficio politico di Pechino che si occupa degli affari di Hong Kong e Macao fino a poco tempo fa era praticamente sconosciuto. Poi, a causa delle reiterate proteste e della dimensione politica e numerica che hanno preso, è apparso nelle cronache per ben due volte in poco tempo.
Ieri ha nuovamente espresso la propria opinione su quanto sta accadendo da ormai nove settimane nell’ex colonia, con una seconda conferenza stampa.
Dopo le manifestazioni, gli scontri e la repressone violenta della polizia, la voglia di opporsi alla Cina non sembra essere sminuita a Hong Kong, come ha dimostrato lo sciopero svoltosi lunedì e il probabile annuncio nei prossimi giorni di un nuovo stop da parte dei lavoratori.
Per la Cina la situazione è sempre più complicata e serviva una presa di posizione in grado di esplicitare la propria determinazione a non tollerare la piega degli eventi. Nei giorni scorsi si è molto speculato su un possibile intervento diretto da parte di esercito o polizia di Pechino, complici anche rumors, molti dei quali senza prove e conferme, di spostamenti di truppe cinesi al confine.
Come ci si aspettava la soluzione militare al momento non rientra tra le mosse possibili del governo di Pechino, che ha preferito ancora una volta dimostrarsi “moderato”, affidando di fatto la responsabilità di tenere a bada quanto sta accadendo al governo della città, lanciando però messaggi inequivocabili.
Innanzitutto è stata confermata la fiducia in Carrie Lam (al momento non sarebbe in discussione, considerando che una delle richieste dei manifestanti chiede proprio le sue dimissioni) e alla polizia di Hong Kong, in grado, secondo Pechino, di assicurare il ritorno alla normalità dell’isola.
Giocando con il fuoco, ha però specificato il portavoce cinese, c’è il rischio di bruciarsi. È chiaro che nel momento in cui a Pechino si dovesse decidere che quello che già viene classificata come volontà di distruggere Hong Kong (il riferimento è stato utilizzato in particolare nei confronti dei lavoratori protagonisti dello sciopero, accusati per altro di avere obbligato con la forza le persone a prenderne parte) è a tutti gli effetti una rivolta, cambierebbe anche la considerazione sulle mosse a disposizione.
Per ora il governo centrale cinese preferisce ricordare alla popolazione di Hong Kong alcune cose molto semplici: che Hong Kong è Cina, che al momento la popolazione di Hong Kong deve tenersi stretta la situazione garantita dalla teoria di “un paese due sistemi” e che potenze straniere (leggi Stati uniti e Gran Bretagna) sostengono le manifestazioni nel tentativo di destabilizzare la Cina (una considerazione che di solito ha grande successo e seguito in Cina, dove il sentimento nazionalista nell’era di Xi Jinping ha trovato nuova linfa).
Un riferimento della conferenza stampa del portavoce di Pechino, in particolare, proietta tutto il dilemma cinese, ovvero “la mancanza di educazione nazionale e patriottica” dimostrata dai giovani di Hong Kong. Nella concezione cinese che alterna ordine e caos, laddove l’ordine è garantito da un “centro” forte e determinato ed è foriero di prosperità, Pechino registra nei manifestanti lo iato di oltre un secolo di distanza dalla madrepatria. I giovani di Hong Kong non sono cresciuti come i loro omologhi cinesi.
E questa distanza è quella che Pechino ritiene di dover colmare, benché non siano più i tempi di conquiste o matrimoni capaci di rinnovare il patto tra centro e periferia. Il dilemma cinese è tutto qui, dimostrare di saper gestire le vene più sotterranee di una società che ha scelto un modello sociale e politico differente da quello cinese. Riportarlo all’interno dell’universo cinese è l’arduo compito che spetta al partito comunista.
E a dimostrazione di questa distanza, insieme a quella di Pechino, ieri si è svolta anche una conferenza stampa – televisiva – nel quartiere di Mong Kok da parte di alcuni manifestanti. Il gruppo di attivisti ha chiesto alla chief executive Carrie Lam di “restituire potere al popolo”. Anche in questo caso siamo di fronte a un fatto eccezionale: fino ad oggi i rappresentanti del movimento di protesta non avevano tenuto conferenze stampa.
“Chiediamo al governo di restituire il potere al popolo e di rispondere alle richieste dei cittadini di Hong Kong”, ha detto un attivista durante la conferenza stampa mostrata su diversi canali televisivi a Hong Kong. Uno degli attivisti ha affermato che il gruppo “non è affiliato a nessun partito o organizzazione politica alla guida del movimento”.
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.