Almeno a parole il governo cinese si fa sentire: se, come annunciato ufficialmente dalla Casa Bianca, Obama incontrerà il Dalai Lama il 18 febbraio, saranno guai. «La Cina – ha detto il portavoce governativo Ma Zhaoxu – si oppone fermamente al fatto che il Dalai Lama visiti gli Stati Uniti e che i dirigenti statunitensi lo incontrino». Il portavoce ha ribadito la richiesta cinese di «annullare immediatamente» l’incontro, invitando «gli Usa a capire la grande delicatezza dei problemi legati al Tibet, onorando il loro impegno a considerare il Tibet parte della Cina e opponendosi all’indipendenza del Tibet».
Nel giorno in cui i vertici politici di Pechino hanno augurato al proprio popolo un felice anno della tigre, gli Usa e la loro decisione di incontrare il Dalai Lama, rischiano di rovinare il chunjie, il capodanno cinese. Non sono bastate le rassicurazioni sul protocollo, secondo le quali Obama riceverà il Dalai Lama non nello studio ovale, bensì nella meno ufficiale sala delle carte. Dal punto di vista cinese, sono chiacchiere e basta.
Si tratta dell’ennesimo atto delle scricchiolanti relazioni tra Usa e Cina, pur se inserite in un contesto ormai differente rispetto al periodo in cui tutto è iniziato, ovvero dalla clamorosa scelta di Google di «liberare» i contenuti precedentemente censurati a seguito di un attacco di hacker cinesi. Poi era stata la volta della decisione di Washington di vendere armi a Taiwan: l’acme della crisi. Ritorsioni nelle relazioni tra i due paesi immediate: fine degli incontri militari e sanzioni promesse alle aziende Usa impegnate a vendere armi ai ribelli taiwanesi. A quel punto le percezioni dei cinesi e le risposte dei propri politici erano sembrate espresse all’unisono: alle parole dure dei portavoce governativi, facevano eco toni roboanti anche nei quotidiani locali.
Il Global Times scrisse che erano cambiati i tempi e che «insieme alla bolla neoliberista economica, è scoppiata anche la bolla ideologica occidentale». Bordate dialettiche, che forse avevano eccessivamente scaldato gli animi cinesi, già su di giri in quanto a nazionalismo.
Non a caso l’ennesima polemica – questa volta sullo yuan, la moneta cinese – aveva avuto un altro trattamento da parte dei media, mentre tra gli analisti è cominciata a farsi strada l’ipotesi di una schermaglia dialettica a fronte di un G2 più solido di quanto andasse dimostrando al mondo intero. A questo proposito Sun Zhe, docente statunitense all’università Tsinghua di Pechino, ha dichiarato all’Associated Press che «anche in caso di incontro, non si andrà più in là di schermaglie dialettiche: sul Tibet la Cina ha una posizione universalmente chiara». Sullo stesso tono Joseph Cheng, esperto di politica cinese all’università di Hong Kong: secondo il professore i contrasti rimarranno a livelli di botta e risposta sui media, mentre entrambe le parti sono seriamente intenzionate a non ledere i rapporti, riconoscendo una sorta di dipendenza reciproca nello scacchiere mondiale.
La questione delle sanzioni all’Iran potrebbe costituire un altro banco di prova, mentre a conferma delle voci circa uno scontro più di facciata, che non reale, è arrivata la notizia secondo la quale la Cina avrebbe autorizzato l’approdo a Hong Kong, nei prossimi giorni, di una portaerei nucleare Usa, la Nimiz.
[Pubblicato su Il Manifesto, il 13 febbraio 2010]