Maggio 2020: su Weibo, il Twitter cinese, vengono cancellate decine di post su una presunta relazione extraconiugale di un dirigente di Alibaba. Quest’ultima è l’azienda di Jack Ma, nota nel mondo per la sua potenza nel mercato dell’e-commerce.
Ma Alibaba è anche azionista di Weibo, una funzione che il colosso cinese esercita in diversi modi: Alibaba è infatti anche il più grande cliente di Weibo, avendo contribuito per 100 milioni di dollari in entrate pubblicitarie nel 2019 (secondo gli ultimi dati disponibili). E non solo, perché quei post rimossi sarebbero stati censurati proprio su richiesta di Alibaba.
All’epoca intervenne perfino il Partito comunista che, oltre a voler controllare in modo completo l’opinione pubblica, vuole anche arrogarsi il diritto di essere l’unico censore: fu un’indagine della Cyberspace Administration of China a rivelare le responsabilità di Alibaba, sottolineando che la società aveva usato le sue attività di azionista «per manipolare l’opinione pubblica».
A GIUGNO LA CYBERSPACE Administration of China ha pubblicamente rimproverato Weibo (e Alibaba) per quella che ha definito «un’interferenza con la comunicazione online» chiedendo «di correggere il proprio comportamento». Pochi mesi dopo, a novembre, Xu Lin, vicedirettore del dipartimento centrale di propaganda del Partito comunista cinese, denunciava l’interferenza politica di grandi aziende nel mondo dei media.
Il riferimento era fin troppo chiaro, Xu Lin parlava del South China Morning Post, quotidiano di Hong Kong che aveva dato grande risalto e copertura giornalistica alle proteste nell’ex colonia. Il South China Morning Post è di proprietà, al 100%, di Alibaba. Si trattava di avvisaglie che avrebbero poi portato allo scontro frontale tra Partito comunista e grandi piattaforme cinesi.
PRIMA DI TUTTO C’È stato il blocco dell’Ipo record di Ant, spin off di Alibaba, alla borsa di Hong Kong; a questo proposito di recente sui media internazionali sono uscite indiscrezioni circa la possibilità che tra le motivazioni di questo stop possano esserci anche questioni politiche, perché nel gioco di incastri societari sono comparsi nomi rilevanti, come quello di un nipote di Jiang Zemin, grande vecchio della politica cinese, cui la campagna anti corruzione di Xi Jinping ha tagliato fuori molti dei suoi «colonnelli».
Poi sono arrivate sanzioni, avvisi più o meno espliciti e una proposta di legge contro i monopoli, voluta da Xi Jinping in persona per contrastare il potere di Alibaba and co. E di recente, secondo fonti raccolte da Wall Street Journal e da Bloomberg, ad Alibaba sarebbe arrivato un altro avviso da parte del Partito comunista, ovvero «snellire» le proprie partecipazioni in aziende che si occupano di informazione e comunicazione.
Alibaba, infatti, ha interessi piuttosto diversificati in questo settore: oltre a Weibo e il South China Morning Post, Alibaba ha joint venture o partnership con potenti media statali come la Xinhua News Agency e gruppi di giornali gestiti dal governo locale nelle province di Zhejiang e Sichuan, oltre a piattaforme di live streaming come Youku e Tudou e aggregatori di notizie economiche, finanziarie e tecnologiche come Yicai Media Group, Huxiu.com e 36Kr.com.
IL TIMORE DEL PARTITO comunista è che la mole di dati raccolti grazie alle attività di e-commerce e la possibilità di influenzare l’opinione pubblica grazie alle partecipazioni «mediatiche» possano essere utilizzati da Alibaba in futuro o in un momento nel quale lo scontro con il Pcc diventasse una questione di sopravvivenza.
Ma secondo il Wall Street Journal l’«avviso» del Pcc potrebbe perfino convenire ad Alibaba: snellendo la propria struttura potrebbe accontentare le autorità e ritrovarsi in una posizione meno pericolosa da un punto di visto normativo in previsione della legge anti trust, oltre a dimostrare di obbedire ai suggerimenti del partito (di cui Jack Ma, per sua stessa ammissione, ha la tessera).
Accettare di smembrare le sue partecipazioni azionarie «potrebbe anche aiutare a tenere la società alla larga da futuri campi minati politici dato che le autorità manterranno una presa stretta sui media». In realta, i media «toccati» da Alibaba hanno ampiamente goduto delle riserve economiche dell’azienda. Il South China Morning Post – ad esempio – dal 2016, data dell’acquisto della testata da parte di Alibaba, «ha ampliato la sua offerta di notizie digitali e la redazione e ha completato un restyling della sua sede di Hong Kong», secondo il Wall Street Journal, senza che la sua proposta giornalistica venisse mai ostacolata da Jack Ma.
PROPRIO JACK MA durante una conferenza organizzata dalla Xinhua, aveva specificato: «Non dobbiamo lasciare che i media perdano la loro capacità di comunicare in modo oggettivo e razionale a causa del denaro». Anche in questo caso, come già capitato con Ant, Alibaba potrebbe essere il primo di diversi obiettivi del Pcc: oltre al colosso di Jack Ma, nel mirino sono finite anche altre aziende come ad esempio Tencent, la cui popolare app WeChat, insieme a Alipay di Alibaba, controlla oltre il 90% del mercato dei pagamenti on line.
E per Ma Huateng, il boss di Tencent (un impero il cui core business è il mercato dei videogiochi), potrebbe valere la stessa richiesta fatta per Alibaba. WeChat, infatti, è diventato ormai uno dei modi principali con cui i cinesi si informano e condividono informazioni. Stesso destino potrebbe toccare anche a Bytedance – la società che ha inventato Tik Tok – che, tra le altre cose, gestisce anche il popolare aggregatore di notizie Jinri Toutiao, che utilizza l’intelligenza artificiale per inviare notizie a centinaia di milioni di utenti.
I TEMPI PER le piattaforme in Cina sono talmente duri che qualcuno decide di anticipare i tempi: Huang Zheng, presidente di Pinduoduo – una delle piattaforme di maggior successo in Cina nel campo del delivery e di recente sotto attacco anche da parte di media statali per i ritmi di lavoro imposti ai suoi riders – ha annunciato le dimissioni con una lettera agli azionisti, nella quale ha anche comunicato che il suo successore sarà il co-fondatore e attuale Ceo Chen Lei.
Chissà che Huang non abbia sentito puzza di bruciato visto l’attuale atteggiamento del governo contro le piattaforme. Huang ha fatto sapere che da ora in avanti si dedicherà alla ricerca scientifica nel campo agricolo. Una sorta di auto-rieducazione nelle campagne 2.0?
Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.