L’India è la più grande democrazia del mondo. Questa iconica affermazione è sicuramente concepita per essere d’effetto e a più riprese, dalla storia della sua fondazione, la democraticità della fragile potenza del Subcontinente ha avuto alti e bassi. Ne sono esempi la sospensione costituzionale operata da Indira Gandhi dal 1975 al 1977 e, forse, il periodo attuale nel quale la dirigenza del BJP sta operando una rarefazione delle garanzie liberali, che ha portato il paese a scendere al 53° posto nell’indice di democraticità. Tuttavia è certo che le sorti politiche dell’India si giocano nelle tornate elettorali del complesso sistema rappresentativo che vede i partiti impegnarsi in una serie di competizioni fra quelle per le due camere parlamentari nazionali, quelle per i membri delle Assemblee legislative dei vari stati (Vidhan Sabha) e dei Consigli di stato (Vidhan Parishad, per le suddivisioni amministrative dove essi sono presenti) ed infine i panchayats dei villaggi e le società municipali (governi locali delle aree rurali ed urbane o suburbane). Negli ultimi giorni, proprio in occasione delle elezioni dei corpi rappresentativi locali (in particolare rurali) nello stato del Rajastan il Partito del Congresso Nazionale Indiano di Sonia Gandhi ha ottenuto una importante vittoria sul Bharatiya Janata Party (BJP) del governo. Alcuni risultati elettorali primaverili sembravano, secondo determinati analisti, aver scalfito la forza del partito di Narendra Modi, nazionalista capo del governo indiano e senza dubbio potremmo trovarci di fronte ad un ridimensionamento dell’immagine politica e dell’appeal elettorale del governo nelle campagne. La situazione della parziale perdita di terreno del BJP (partito al governo) in alcune aree nelle amministrazioni statali o locali non è una novità del panorama politico di Nuova Delhi: già nel 2001 il Professor Torri, massimo esperto di storia e politica indiana, affermava su un suo articolo per la rivista “Jura Gentium” che “sempre più spesso i partiti al potere negli stati dell’Unione non hanno coinciso con quelli al governo a New Delhi”.
Per cercare di prevedere se gli sviluppi delle vittorie saranno foriere di un vero e proprio passaggio di testimone ai vertici della politica nazionale è indispensabile osservare gli equilibri partitici interni sia del BJP che del Congresso oltre che dell’Aam Aadmi Party, (AAP), forza politica di ispirazione populista e giustizialista nata nel 2012 che si propone come alternativa per certo elettorato del BJP pur non avendo mai raggiunto i numeri nelle elezioni generali.
Il Congresso, uscito con circa il 20% delle preferenze ottenute nel 2019 ha, purtroppo per la sua presidentessa Sonia Gandhi, dimostrato di soffrire di cospicue debolezze strutturali proprio nella scelta di dirigenti elettoralmente sostenibili. Al di là di colpi di scena come l’ultimo in ordine di tempo, le dimissioni di Amarinder Singh, celebre membro del Congresso, dalla carica ammnistrativa di Ministro capo (Chief minister) del Punjab, gli scossoni ai piani alti del partito sono stati tanti in questi ultimi due anni. Una figura di alto livello come Amarinder Singh, tra l’altro spesa in uno stato dalla delicata prospettiva geopolitica (il Punjab come regione geografica è condivisa con il Pakistan ed è stato centrale nelle rivolte dei coltivatori) ha certamente un significato simbolico ed un alto valore elettorale ed il fatto che abbia fatto pesare la sua divergenza di vedute con il vertice del Congresso riporta a quanto accaduto a ottobre del 2020 con l’espressione da parte di 23 personalità di spicco del partito avverso la gestione della famiglia Gandhi. Rahul Gandhi non sembra possedere né un carisma tale da polarizzare verso la sua figura né le doti politiche per poter riorganizzare, attraverso delle necessarie riforme, il paese (una volta preso il potere). Insomma il Congresso, seppur ancora forte di un importante sostegno elettorale, sembra in realtà navigare in una pericolosa palude colma di nebbia perso nel dilemma della scelta dei nomi vincenti da coltivare sin da ora per lanciare nella futura campagna elettorale nazionale.
Per ciò che concerne l’AAP, partito fondato a partire dall’esperienza di moti di protesta contro la corruzione esplosi a Delhi nel novembre del 2012, il partito sembrava essere destinato ad una subitanea esplosione anche in termini elettorali ma il palcoscenico della consolidata binomia Congresso/BJP ha sicuramente avuto il suo peso nel frenare la corsa del movimento. L’AAP sembra, per adesso, essersi imposto a Nuova Delhi e in Punjab ma fatica ancora nel contesto centrale. Arvind Kejriwal, riconfermato leader da poco, è senza dubbio una personalità di rilievo, ma non sembra avere i numeri per affrontare nel campo aperto delle elezioni nazionali né l’evocativa immagine del Congresso dei Gandhi né tantomeno la leadership e lo staff di Narendra Modi. Pare piuttosto che l’AAP disperda le sue energie nello scontro dialettico diretto contro il BJP senza costruire una leadership più credibile.
Pur rosicchiata dalla cattiva gestione dell’emergenza sanitaria e con qualche risultato locale che ne offusca la grandezza, la forza del BJP è rimasta pressoché intatta, perché il partito ha saputo sfruttare al meglio la leva del populismo ancorandosi ai valori nazionalisti e religiosi e portando a suo favore eventi internazionali talvolta non dipendenti dalle sue politiche come la questione del Kashmir e delle frizioni con la Cina. Narendra Modi, oltre all’erosione di determinate libertà e all’isolamento di certi gruppi sociali, è per ora riuscito a costruire una ben piantata figura di capo e “uomo forte” che sembra dover reggere se le altre forze politiche non saranno capaci di riorganizzarsi.
Di Francesco Valacchi*
*Dottorato in Geopolitica presso l’Università di Pisa. Collabora con “Affarinternazionali”, “Geopolitica.info”, “Ispi-online”, “RISE” (del TWAI), “Pandora rivista”, “Dialoghi Mediterranei” e altre riviste