La legge contro la blasfemia del Codice pakistano è una delle più severe al mondo. Il reato, che può essere punibile con la pena di morte, è spesso utilizzato come strumento politico contro progressisti e minoranze. E nel Corano, di punizioni contro i blasfemi, non se ne trovano. (UPDATED)
7 settembre – Update
Rimsha Masih, la minorenne in carcere accusata di blasfemia, sarà presto libera. Oggi i giudici hanno accettato la richiesta di libertà su cauzione dietro garanzia di un milione di rupie, pari a 8.360 euro.
6 settembre – La storia
Il caso di Rimsha Masih, la minorenne pakistana arrestata a metà agosto con l’accusa di blasfemia, ha sollevato polemiche in Pakistan ed all’estero, circondato da subito da un’aura di indignazione e, spesso, di approssimazione.
Secondo i primi resoconti, le autorità avrebbero trovato delle pagine del Corano bruciate nella sua borsa, reato che secondo la legge pakistana è punibile con la pena di morte. Solo pochi giorni fa si è scoperto che fu l’imam locale a mettere addosso alla piccola le pagine del libro sacro, perseguendo fini ben lontani dalla difesa del nome di Allah.
I dettagli intorno a Rimsha sono abbastanza fumosi: non è chiara l’età, che oscilla tra gli 11 e i 14 anni a seconda delle fonti; pare soffra di una forma di deficit dell’apprendimento, alcuni hanno ipotizzato addirittura possa essere affetta da sindrome di down.
Le uniche certezze rimangono la sua religione cristiana, il suo background di povertà in uno dei sobborghi di Islamabad e il fatto che il reato di blasfemia del codice pakistano sia spesso usato come stratagemma legale per disfarsi di avversari politici o minoranze religiose scomode.
Le origini della legge
Ayesha Siddiqa sul magazine indiano Tehelka ha ripercorso l’origine della legge contro la blasfemia che, a dispetto del sentire comune, non trae ispirazione da nessuna sura del Corano. Anzi, racconta la giornalista, molti musulmani crescono sentendo la storia di Makkah, parabola della compassione islamica.
Makkah, donna ebrea, era solita lanciare immondizia contro il profeta Maometto ogni qual volta egli passasse davanti la sua casa. Quando si ammalò, e i lanci di spazzatura si interruppero, il profeta preoccupato andò a farle visita per accertarsi delle sue condizioni di salute.
Il reato di blasfemia venne creato molto tempo dopo Maometto, quando i musulmani si ritrovarono a controllare un vasto territorio abitato in larga maggioranza da non musulmani.
Nel quindicesimo secolo l’influenza musulmana arrivò ad estendersi dall’India, lungo l’Africa settentrionale, fino al califfato di Granada, nella penisola iberica. La legge contro la blasfemia e l’apostasia serviva a contenere le riconversioni dei popoli convertiti all’Islam, facilitandone il controllo.
In Pakistan la legge venne introdotta invece alla fine degli anni Settanta dal dittatore militare Muhammad Zia-ul-Haq, ispirandosi ad un comma simile in vigore durante l’occupazione coloniale britannica di tutto il subcontinente indiano.
La pena iniziale del carcere a vita fu inasprita poco dopo dai giudici della Corte federale della sharia – codice morale e legge religiosa dell’Islam – che portarono la pena massima fino alla sentenza capitale.
Perseguitati cristiani e musulmani
Nella storia recente il controverso reato di blasfemia è stato usato per colpire bersagli politici ben precisi. Nel 2009 la legge guadagnò le prime pagine dei giornali mondiali per il caso di Asia Bibi, la contadina cristiana accusata di blasfemia e ancora oggi in carcere condannata all’impiccagione.
Lo scandalo fece molto clamore anche in Pakistan, dove alcuni esponenti politici di rilievo proposero di iniziare l’iter di abrogazione della legge. Shahbaz Bhatti, ministro per le minoranze religiose, e Salman Taseer, governatore della provincia orientale del Punjab, furono entrambi assassinati agli inizi del 2011 per aver messo in discussione il reato di blasfemia.
I comma 295b e 295c del Codice penale pakistano relativi alla blasfemia, se utilizzati accuratamente, permettono all’establishment religioso del Paese, in connivenza con malavita e signorotti locali, di liberarsi di personaggi progressisti o, semplicemente, di aizzare scontri interreligiosi per sfollare le minoranze ed appropriarsi dei loro terreni.
Dietro all’incarcerazione di Rimsha ci sarebbero proprio gli appalti per lo sviluppo edilizio dello slum dove vive la comunità cristiana della ragazzina, terreno che la mafia è decisa ad accaparrarsi ad ogni costo.
Sentenza di morte mai applicata
La giustizia pakistana non ha mai applicato la pena capitale per il reato di blasfemia. Nel 2011, secondo un rapporto della Asian Human Rights Commission, in Pakistan sono state accusate di blasfemia 161 persone: nel 95 per cento dei casi, secondo un avvocato musulmano intervistato dall’agenzia di stampa vaticana Fides, si è trattato di “false accuse”.
Non si hanno dati precisi sulla percentuale di non musulmani incriminati ma, secondo fonti d’informazione vicine alla chiesa evangelica, si stima siano intorno al 50 per cento. Le minoranze religiose nel Paese ammontano al 3 per cento della popolazione totale.
Anche in caso di assoluzione piena dai tribunali pakistani, l’onta della blasfemia può perseguitare gli accusati fin fuori dall’aula. Non è raro che, scampati alla gogna di stato, i cittadini accusati siano uccisi in attentati o linciati dalla folla, ciecamente decisi a non lasciare impunito un reato contro l’Islam che, nella Terra dei puri, è religione di stato.
[Scritto per Lettera43; foto credit: islamizationwatch.blogspot.com]