Traiettorie marittime, peso puramente militare, accordi economici. Il Pacifico ospita il confronto tra le economie più forti del pianeta, Stati che hanno un unico desiderio nell’area, ovvero diventarne egemone. Per questo si stanno armando fino ai denti e stanno fomentando il nazionalismo interno. L’analisi di una situazione potenzialmente esplosiva.
La Cina chiama il proprio aumento della spesa militare (la seconda al mondo dopo gli Stati Uniti) «sviluppo pacifico», volto alla difesa e senza alcuna intenzione di attacchi. Il Giappone, da buon paese asiatico, ha annunciato ieri l’aumento del 5 percento della sua spesa militare nei prossimi cinque anni (che lo pone come quinto paese al mondo per acquisti militari) e lo ha chiamato «pacifismo proattivo». Cambia poco: la verità è che Cina e Giappone – ma anche tutti i paesi che insieme agli Usa sono chiamati a recitare un ruolo nello scacchiere del Pacifico – si stanno armando fino ai denti.
Alle parole e agli atti degli uni, si risponde con un nuovo drone o un mezzo anfibio nel proprio arsenale. E se la Cina predica una sorta di ruolo da fratello maggiore, vagamente fastidioso per gli altri, il Giappone recita invece la parte dell’ospite ferito che ha ansie e desideri di rivincite, con il suo principale carnefice del passato – gli Usa e le loro atomiche – che oggi diventa il principale alleato. L’annuncio del governo di Abe conferma inoltre un dato ormai mondiale: è il Pacifico la partita all’interno della quale si giocherà il futuro geopolitico, economico e militare da qui in avanti. Traiettorie marittime, peso puramente militare, accordi economici: il Pacifico ospita il confronto tra le economie più forti del pianeta, Stati che hanno un unico desiderio nell’area, ovvero diventarne egemone.
Shinzo Abe, già protagonista del tentativo di sollevare il paese dalla recessione economica con la sua Abenomics, lancia una sorta di «sogno giapponese» da contrapporre a quello di Xi Jinping. Non a caso il modello proposto dal Giappone di Abe si basa su due elementi: la spesa pubblica, le liberalizzazioni e una politica internazionale volta al riarmo. Il piano annunciato dal governo di Abe farà arrivare la spesa militare complessiva per i prossimi cinque anni a 24.700 miliardi di yen, 175 miliardi di euro per l’acquisto di droni (di ricognizione) di aerei di fabbricazione americana Osprey (per una politica di difesa più efficace e reattiva), aerei a decollo verticale, veicoli anfibi e sottomarini.
Lo scopo è rafforzare la capacità di difesa del Giappone nei territori delle isole dell’ovest e del sud dell’arcipelago. E’ chiaro che lo sguardo del Giappone è principalmente rivolto alla Cina: non a caso la maggior parte della spesa militare andrà a rinforzare le capacità a monitorare e difendere quella parte di mare nella quale sono situate le isole contese con Pechino. Questa svolta di Abe sembra seguire la traiettoria di un disegno ben definito e che pone il primo ministro tra i «falchi» giapponesi, sebbene il nazionalismo di Tokyo sia condiviso da larghe fasce della popolazione.
Il Giappone infatti, dalla fine della seconda guerra mondiale non ha un esercito regolare, bensì le cosiddette «forze di autodifesa»; la natura delle problematiche scaturite nel Pacifico, la forte irruenza cinese, potrebbero portare ben presto Abe ad appoggiare la possibilità di un ritorno ad un esercito regolare, con la complicità degli Stati Uniti di Obama, la cui strategia «pivot to Asia», potrebbe anche partorire un alleggerimento di posizione storiche. Nel caso ci sarà naturalmente da valutare un’eventuale reazione cinese, ma l’acquisto di mezzi anfibi adatti ad invasioni di isole mette sufficientemente in chiaro i probabili passi futuri giapponesi.
Non a caso nel nuovo documento di sicurezza prodotto dal governo di Tokyo si enfatizza l’importanza della solidità delle relazioni con gli Stati Uniti per limitare la crescente influenza militare cinese nella regione. Inoltre nel documento si torna a condannare la politica aggressiva cinese nel Mar della Cina meridionale, affermando che le rivendicazioni di Pechino, che sulla zona a novembre ha dichiarato un’area di difesa aerea, sono «incompatibili con le leggi internazionali».
Ci sono poi ragioni puramente interne – come per la Cina – che il nazionalismo di Abe potrebbero voler placare: l’Abenomics infatti ha dato esiti piuttosto ambivalenti. Da un lato con i finanziamenti statali è stato rilanciato l’export, ma dall’altro si è proceduto ad una deregulation neoliberista, che ha provocato il tipico effetto perverso, ovvero l’aumento della forbice tra ricchi e meno ricchi (che in Giappone fino a poco tempo fa era piuttosto controllata).
Si crea quindi il solito meccanismo, che vede il ceto medio diventare sempre più povero (tra l’altro tempo fa è stato annunciato un aumento dell’iva giapponese per il 2014) e più esposto a creare tensioni sociali. Ceto però che ovunque nel mondo sembra sempre pronto a nascondere le proprie pene sociali, in nome di un nemico comune esterno: per i giapponesi questo spauracchio si chiama Cina.
[Scritto per il manifesto]