Studenti e operai uniti in una lotta per chiedere di poter formare liberi sindacati. L’incubo della Cina protesa verso le riforme dell’era di Deng Xiaoping ritorna, seppure in miniatura. Nella nuovissima Cina di Xi Jinping, però, seppure con numeri ancora limitati, si riaffaccia questa alleanza, benedetta da vecchi maoisti e pensionati del partito comunista che hanno voluto far sentire il proprio appoggio a operai e studenti.
SI TRATTA DI UNA PROTESTA che dura da luglio, iniziata dai lavoratori della fabbrica della Jasic Technolgy di Shenzhen, colosso dell’industria cinese, specializzata in macchinari per la saldatura: alcuni di loro sono stati prima arrestati, poi rilasciati grazie alla pressione di altri lavoratori giunti in loro soccorso. Per gli studenti provenienti dalla Peking University, della Nanjing University, della Renmin University e da altri istituti, che hanno formato gruppi di solidiarietà, venerdì è arrivato un raid della polizia: 40 sono stati presi in un appartamento a Huizhou — vicino a Shenzhen — e sono probabilmente detenuti. Un video girato all’interno dell’abitazione ha mostrato il momento dell’irruzione dei poliziotti.
CI SONO ALCUNI ELEMENTI importanti in questa storia, capaci di consegnarci un’immagine della Cina poco propensa ad appoggiare la visione della leadership di Xi Jinping, ovvero quella di un paese unito nella ritrovata «rinascita» e nella nuova proposizione globale.
Del resto lo stesso presidente cinese pare insidiato da critiche che sono state mosse da ambiti universitari: la sua visione autoritaria comincia a non piacere a tutti. E di sicuro non piace a quei lavoratori che vivono sulla propria pelle i risultati di uno sviluppo ineguale e che vede cambiare, e non di poco, anche il mondo del lavoro, unitamente a una società che appare sempre più controllata. Più la Cina avanza, nell’immagine globale e nelle sue capacità di produrre tecnologie di alta qualità — si pensi a tutto il comparto legato all’intelligenza artificiale — più sembra evidente che a soffrirne siano le classi inferiori, i lavoratori in primis.
MA PROPRIO QUESTA PROTESTA ci racconta come i lavoratori e gli ambiti sociali che più sembrano soffrire l’attuale situazione, puntino a un riconoscimento dei propri diritti, cercando di allargare le maglie della rule of law all’interno del paese. Una delle persone che ha appoggiato la protesta dei lavoratori, prima detenuta e poi rilasciata, ha denunciato gli abusi dei consueti teppisti utilizzati in questi casi dalle aziende, ma ha scritto una lettera pubblica a Xi Jinping nella quale, oltre a ribadire l’importanza della lotta dei lavoratori ne delinea in modo netto il perimetro:
«Nessuno può resistere al flusso della storia, ha scritto, non siamo una “forza straniera”, né studenti rivoluzionari, né abbiamo richieste politiche. Quello che vogliamo è giustizia per i lavoratori. Ricordiamo e conosciamo la fiducia e le speranze che la leadership del partito ripongono in noi. Crediamo che giustizia sarà fatta. Lo stato di diritto in Cina continuerà sicuramente ad ampliarsi. Noi ci crediamo fermamente e sinceramente non vediamo l’ora di ricevere il sostegno della leadership del partito centrale e del Segretario generale Xi Jinping!».
Del resto le rivendicazioni stesse dei lavoratori, unitamente alla possibilità di creare un sindacato indipendente, erano molto specifiche: miglioramento delle condizioni di lavoro, fine delle indagini condotte sulle vite personali, pagamenti regolari: tra le rivendicazioni si richiede che termini la «divulgazione di informazioni sull’identità dei dipendenti e la creazione illegale di liste nere di dipendenti, la violazione della privacy, come sbirciare i dipendenti che vanno al bagno».
QUELLO DI SHENZHEN, luogo simbolo dell’apertura della Cina al mercato, è l’ultimo esempio di qualcosa che cova da sempre nella locomotiva cinese. Nella Cina globale di Xi Jinping non sono diminuiti gli scioperi e le proteste dei lavoratori, anzi. Negli ultimi anni, dal 2013 al dicembre 2017 — secondo il China Labour Bulletin — sarebbero oltre 8mila le contestazioni dei lavoratori.
SI TRATTA DI UN TREND che è cambiato negli ultimi tempi tanto nelle dinamiche, quanto nelle richieste, ma non nella sua forza.
Nella Cina di Xi protesa a estendere una propria egemonia all’estero ma costretta a confrontarsi con una crescita di proporzioni meno miracolose che in passato, le «azioni collettive sono state innescate non dalle richieste di migliori retribuzioni e migliori condizioni di lavoro, ma dal fallimento dei datori di lavoro sia delle industrie tradizionali che di quelle nuove a rispettare anche le disposizioni più basilari del diritto del lavoro». Lo scrive Geoffrey Crothall in un recente articolo — apparso sull’ottimo sito Chinoiresie– dal titolo China’s Labour Movement in Transition.
[Pubblicato su il manifesto]
Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.