xinjiang

Onu: «Abusi in Xinjiang». Ma non è un genocidio

In Cina, Economia, Politica e Società by Alessandra Colarizi

L’atteso rapporto dell’Onu sulle condizioni nel Xinjiang dove vive la minoranza musulmana degli uiguri chiede alle autorità cinesi provvedimenti per chiudere i centri di rieducazione. Pechino risponde: menzogne. Ma l’intenzione di cambiare strategia, usando l’economia, è già in fieri

Nella regione cinese del Xinjiang sono in corso “gravi violazioni dei diritti umani”. E’ quanto emerge dall’atteso rapporto dell’Onu sui presunti abusi subiti dalle minoranze islamiche nelle aree di confine tra la Cina e l’Asia centrale. L’indagine, rilasciata intorno alla mezzanotte di mercoledì, cita resoconti “credibili” di tortura, lavoro coatto, violenze sessuali, sterilizzazioni forzate e altre forme di trattamento disumano tra il 2017 e il 2019. 

Il corposo report – 48 pagine in tutto – si basa su documenti ufficiali, racconti di ex detenuti nonché su quanto osservato da Michelle Bachelet durante una controversa visita in Cina nel mese di maggio. La prima di un Alto Commissario dell’Onu per i diritti umani dal 2005, sebbene avvenuta sotto stretto controllo delle autorità cinesi. 

Da tempo studi indipendenti attestano l’esistenza di un sistema di centri di detenzione extragiudiziale e lavoro forzato per le minoranze musulmane, che Pechino chiama “scuole” per la “rieducazione” degli elementi radicalizzati. Il rapporto dell’Onu definisce la campagna antiterrorismo del governo cinese “profondamente problematica secondo gli standard internazionali sui diritti umani”, e accenna al rischio di “crimini contro l’umanità”. Ma non conferma le accuse di “genocidio” supportate da Washington e alcuni parlamenti europei.

Le autorità cinesi sono state invitate a prendere “prontamente provvedimenti per rilasciare tutte le persone arbitrariamente private della loro libertà” e a intraprendere “una revisione completa del quadro giuridico che disciplina la sicurezza nazionale, l’antiterrorismo e i diritti delle minoranze”. L’indagine sembra così riconoscere l’esistenza di un problema di estremismo nel Xinjiang, ma considera deplorevoli i metodi coercitivi impiegati da Pechino per sradicare il fenomeno su base etnica e religiosa. 

Commentando il report, la Cina ha definito le accuse “menzogne fabbricate da forze anti-Cina”, e sostiene che il programma sia terminato nel 2019. 

Il rapporto – che Bachelet definì “in fase finale” un anno fa – è stato divulgato in versione edulcorata solo pochi minuti prima della scadenza del suo mandato. Tempistiche su cui pare abbiano inciso le pressioni cinesi e di alcuni paesi “amici”. Negli ultimi anni la crescente influenza all’interno dell’Onu ha permesso a Pechino di stemperare alcune delle mozioni più critiche.

A metà agosto la Cina ha presentato i documenti di ratifica di due Convenzioni dell’ILO sul lavoro forzato. Mossa che è parsa voler creare un clima distensivo proprio in vista del report e di un possibile inasprimento delle regole sulle importazioni nell’Ue – il Xinjiang è uno dei principali produttori mondiali di cotone e materiali per pannelli solari. 

Sotto il pressing internazionale, da tempo Pechino dà cenni di voler cambiare la propria strategia in Xinjiang, puntando di più sull’economia. A luglio il presidente Xi Jinping è tornato nella regione occidentale a otto anni dalla sua ultima visita. Stavolta il leader non ha parlato di terrorismo, bensì di nuova via della seta e “unità” etnica, descrivendo il Xinjiang come uno snodo chiave per i commerci verso l’Europa. Tra le righe, tuttavia, si scorge il non meno preoccupante tentativo di cancellare le radici culturali delle minoranze centroasiatiche. Mentre era in viaggio Xi è ricorso con insistenza al termine Zhonghua (“civiltà cinese”), concetto inclusivo seppur vago che riconduce a millenni prima della fondazione della Repubblica popolare l’esistenza di un’identità cinese astorica, a cui fanno capo tutte le etnie. Segno che nel Xinjiang il processo di sommersione etnica probabilmente continuerà. Con modalità nuove, forse meno aggressive, ma continuerà.

Di Alessandra Colarizi

[Pubblicato su il manifesto]