I media cinesi rappresentano la voce del Partito comunista cinese in patria e all’estero. Non sorprende perciò che nel corso degli ultimi anni il crescente numero di collaborazioni tra media cinesi e media esteri abbia attirato l’interesse di diversi osservatori internazionali. Ad oggi, in Italia, poca attenzione è stata data alla natura e alle possibili implicazioni degli accordi siglati nel marzo del 2019 dalla Rai e dall’Ansa con le loro controparti cinesi, firmati a margine della visita di stato del Presidente cinese Xi Jinping. L’Istituto Affari Internazionali ha effettuato uno studio per quantificarne il reale impatto.
Da quando Xi Jinping ha assunto l’incarico di segretario generale del partito nel 2012 – e poi di presidente del Paese nel 2013 -, il Partito comunista cinese (Pcc) ha intensificato significativamente gli sforzi per favorire la diffusione di una percezione positiva della Cina nel mondo. Nel tentativo di aggiornare la propria strategia di diplomazia pubblica, il governo cinese ha intrapreso una grande varietà strategie differenti.
Una parte di queste iniziative può essere considerata del tutto legittima: forme di soft power ampiamente utilizzate da altri Paesi nel promuovere all’estero le proprie attività economiche, politiche e culturali. Altre azioni, in particolar modo quelle operate nel panorama mediatico globale, restano invece più controverse. Osservatori indipendenti come Reporter senza frontiere e la Federazione internazionale dei giornalisti hanno accusato Pechino di aver lanciato una vera e propria campagna per la creazione di un “nuovo ordine mondiale dei media” più adatto a diffondere la propria propaganda politica all’estero e contrastare in maniera più efficace le critiche rivolte al Paese.
Per rimodellare l’ambiente dell’informazione internazionale e renderlo più amichevole nei propri confronti, il Pcc ha potuto fare affidamento su una vasta gamma di attori che vanno dalle agenzie di propaganda ufficiali, alle imprese private e agli uomini d’affari fedeli al partito e residenti all’estero. Un ruolo centrale è stato svolto tuttavia dai media di Stato, che dal 2013 hanno ampliato le loro reti all’estero e si sono radicati nel panorama mediatico globale. Report pubblicati da organizzazioni indipendenti hanno fatto luce sulle tattiche ricorrenti usate da enti affiliati o riconducibili al governo cinese per influenzare i media stranieri, organizzazioni di giornalisti e reporter freelance. Queste tattiche comprendono: programmi di formazione per giornalisti stranieri; programmi di scambio o viaggi in Cina interamente spesati; organizzazione di eventi internazionali che promuovono la concezione cinese del giornalismo; acquisizione di organi di informazione esteri; programmi di cooperazione con media outlet o organizzazioni di giornalisti.
La voce del Dragone nella stampa italiana
L’Italia non è stata di certo esente dal tentativo della Cina di controllare le narrazioni internazionali che la riguardano, come messo in luce da uno studio dello IAI, realizzato nell’ambito del progetto “When Italy Embraces the Belt and Road Initiative”. Per rafforzare la propria presenza nell’ambiente mediatico italiano gli organi di informazione di Stato cinesi si sono affidati in larga misura ai Memorandum di intesa e agli accordi di condivisione dei contenuti.
Nonostante questo tipo di accordi siano una prassi ben consolidata nel settore dell’informazione, le collaborazioni con enti di informazione di Stati autoritari – come la Cina – sono particolarmente problematiche. Gli outlet cinesi tendono a fornire articoli pre-tradotti che il più delle volte sono pubblicati dai partner esteri senza il necessario fact-checking o controllo dei contenuti. In assenza di informazioni proprie o di giornalisti specializzati, alcuni media italiani finiscono per riproporre acriticamente notizie provenienti dalle agenzie di stampa cinesi, contribuendo in tal modo a diffondere contenuti di chiaro stampo propagandistico. La natura controversa di tali accordi è suggerita anche dal fatto che il flusso di notizie è generalmente unidirezionale in quanto i media cinesi non ripropongono ai loro lettori articoli prodotti delle loro controparti italiane.
Il processo di integrazione dei media cinesi nel panorama mediatico italiano è un fenomeno ben consolidato. Ad oggi tutti i più grandi gruppi mediatici italiani intrattengono rapporti di partenariato con controparti cinesi, sia pure con modalità che variano in termini di contenuti e portata. Tra essi figurano: l’Agenzia Giornalistica Italiana (Agi), Adnkoronos, Class Editori, Il Sole 24Ore, Il Giornale, Mediaset, Rai ed Ansa. Le collaborazioni tra media figurano anche tra gli accordi siglati in occasione della firma del Memorandum d’intesa a supporto della “Belt and Road Initiative” tra Cina e Italia nel marzo 2019. In quella occasione la Rai e l’Ansa, hanno firmato il rinnovo di accordi bilaterali con due controparti cinesi, rispettivamente: China Media Group (Cmg) e Xinhua.
Antidoto alla disinformazione
Benché gli accordi firmati nell’ambito del Memorandum d’intesa abbiano in parte accresciuto la capacità della Cina di presentare i propri contenuti direttamente al pubblico italiano, la strategia di Pechino per promuovere un’opinione più favorevole della Cina sembra aver prodotto scarsi risultati visto che la percezione della Cina in Italia non è migliorata. Secondo uno degli studi più recenti sull’opinione pubblica italiana nei confronti della Cina, dopo il 2017 la percezione del 44,7% degli italiani verso la Cina è rimasta immutata; il 38,5% ritiene che sia peggiorata e solo il 16,8% scorge un miglioramento. Tuttavia, la mancanza di risultati a favore della strategia cinese di estendere la propria influenza in Italia non rendono meno discutibili le collaborazioni tra media cinesi e quelli italiani.
Nonostante il rapporto controverso tra media italiani e cinesi, l’Italia è rimasta un Paese che offre una visione pluralistica della Cina. Mentre Pechino acquista un ruolo sempre più importante nell’arena internazionale, la domanda di notizie sul Paese da parte dei lettori italiani è aumentata significativamente. I giornalisti con competenze specifiche sul Paese – e sull’Asia in generale – non solo sono diventati più numerosi, ma hanno anche ottenuto più spazio nel dibattito pubblico.
Ciò ha permesso la fioritura di un giornalismo bene informato e basato sui fatti e, nello stesso tempo, di un ampio dibattito sulla Cina, Paese sul quale la maggior parte degli italiani continua ad avere una conoscenza molto limitata. Questo tipo di giornalismo contribuisce a migliorare la comprensione della Cina più dell’offerta di informazioni preconfezionate o contenuti “culturali” depurati da qualsiasi tema potenzialmente controverso.
Di Lorenzo Mariani e Francesca Ghiretti