Lascañas era stato più volte tirato in ballo da un’altro testimone ed ex killer, Edgar Matobato, che l’aveva definito «braccio destro di Duterte»; era già stato ascoltato in un’audizione parlamentare lo scorso autunno, ma aveva sempre negato i fatti. Ieri è ricomparso all’improvviso in una conferenza stampa ammettendo tutto. Lui dice per ragioni di coscienza, i sostenitori di Duterte lo accusano invece di far parte di una congiura per destituire il presidente.
Il supertestimone è rappresentato da tre avvocati per i diritti umani e racconta che, durante il suo mandato più che ventennale, Duterte mise a libro paga un vero e proprio «squadrone della morte» che ha sulla coscienza, tra le altre cose, il massacro di un presunto sequestratore con tutta la sua famiglia, l’omicidio di un giornalista e di una donna incinta. Sarebbero oltre 1400 gli omicidi extragiudiziali compiuti a Davao tra il 1998 e il 2016. «Che sotterrassimo i corpi o li buttassimo a mare, eravamo sempre pagati dal sindaco Rody Duterte», ha raccontato Lascañas.
Duterte ha poi esteso i suoi metodi da sindaco a livello nazionale – anzi, ha proprio vinto le elezioni del maggio 2016 promettendo pugno di ferro – e nella sua campagna contro la droga e la piccola criminalità ha lasciato mani libere alle forze di sicurezza che, si stima, avrebbero già ucciso circa settemila tossicomani, spacciatori e piccoli criminali.
A stretto giro, il portavoce di Duterte, Marin Andanar, ha negato tutte le accuse di Lascañas, affermando che si tratta di un «lavoro di demolizione» messo in atto da forze che vogliono creare un «dramma politico mirato a distruggere il Presidente e a rovesciare la sua amministrazione». Andanar ha aggiunto che Duterte è già stato prosciolto dalla Commissione per i Diritti Umani, dall’Ufficio del Difensore Civico e dalla Commissione Giustizia del Senato per ogni complicità nelle esecuzioni sommarie a Davao. Secondo la versione ufficiale, Duterte sarebbe sotto attacco perché le sue riforme colpiscono interessi costituiti.
Va però detto che è stato lo stesso Duterte, nel corso degli anni, ad alternare smentite e conferme sull’esistenza di uno squadrone della morte a Davao. Ha anche già ammesso di avere personalmente ucciso tre responsabili di sequestro per dare l’esempio alla polizia. E soprattutto, è sotto gli occhi di tutti il salto di qualità in senso repressivo della lotta alla droga da parte del governo da quando Duterte si è insediato. Una pressione costante che si esercita soprattutto sui quartieri popolari, teatro delle scorribande dei vigilantes, in divisa e no.
Ma qui si tratta di appurare le responsabilità non politiche bensì direttamente penali di Duterte e il quadro si complica.
Le riforme di Duterte, al di là della compagna antidroga, si sostanziano nel cosiddetto «Programma socio-economico in 10 punti» che con un grande piano infrastrutturale dovrebbe garantire crescita e lavoro. Tuttavia, i critici di Duterte dicono che il suo pugno di ferro e diverse prese di posizione in politica estera potrebbero determinare una fuga degli investimenti esteri. Duterte ha più volte attaccato gli Usa – alleato storico delle Filippine – e l’Onu, dopo avere ricevuto critiche sia dalla Casa Bianca sia dal Palazzo di Vetro per le sue politiche antidroga. Ha minacciato di costituire un nuovo blocco strategico con la Cina e i Paesi africani e ha più volte proclamato di voler condurre una politica estera «indipendente», affermazioni che hanno fatto alzare più di un sopracciglio a Washington. Non è ancora ben chiaro se la promessa di uno sviluppo più «inclusivo» stia dando risultati, ma c’è consenso nel ritenere che il futuro dell’amministrazione Duterte dipenderà calla capacità di mantenere un elevato livello di crescita e di creare lavoro.
Il senatore Richard Gordon, un veterano della politica filippina che presiede la Commissione Giustizia del Senato, ha già dichiarato che non promuoverà una nuova inchiesta in parlamento e ha aggiunto che i tempi di queste nuove rivelazioni di Lascañas sono quanto mai strani, perché coincidono con il caso della senatrice Leila de Lima, l’avversaria di Duterte ed ex ministro della Giustizia del governo Aquino che l’anno scorso portò in Senato la testimonianza di Edgar Matobato e che dovrebbe essere lei stessa incriminata per un caso di droga nei prossimi giorni. De Lima è stata accusata di aver accettato denaro da narcotrafficanti in carcere e di avere consentito a un condannato di gestire il proprio business da dietro le sbarre.
Il ministro della Giustizia Vitaliano Aguirre ha dichiarato il 17 febbraio che tre denunce sono state depositate contro de Lima, il suo autista e un certo numero di altre persone. Anticipando le critiche, Aguirre ha affermato che il procedimento «non è politico, bensì prodotto del commercio di droga». De Lima ha diffuso un comunicato nel quale afferma: «Se la perdita della libertà è il prezzo che devo pagare per oppormi alla macelleria messa in atto dal regime Duterte, allora questo è un prezzo che sono disposta a pagare».
[Scritto per Radio Popolare]