Comprendere a fondo la Cina per rispondere alle sfide globali del futuro. Questo l’obiettivo del “Dialogo transatlantico ed europeo sulla Cina”. Un forum accademico dedicato alla riapertura del dialogo tra Usa e Ue relativamente all’interpretazione di sfide e opportunità poste dalla presenza di Pechino sul palcoscenico globale.
Dalle parole ai fatti. Prosegue la riflessione di accademici statunitensi ed europei all’interno del “Dialogo transatlantico ed europeo sulla Cina” su come interpretare sfide e opportunità rappresentate dal ruolo geopolitico della Repubblica Popolare Cinese. Il forum, finanziato dalla no-profit newyorkese Ford Foundation e organizzato con la partecipazione dell’Università della Pennsylvania, del Leiden Asia Centre e dell’Università Luiss Guido Carli di Roma, ha come obiettivo la realizzazione di policy-papers rivolti ai governi di Stati Uniti e Unione Europea che consentano di avvicinare la comunità accademica agli enti governativi.
Attraverso vari seminari e momenti di incontro, il progetto punta a stimolare il dialogo tra esperti di settore e invita in questo contesto ad abbandonare framework eccessivamente teorici in favore di un approccio pratico alle sfide poste dall’influenza cinese sul panorama globale: tecnologia, governance, trazione sul Sud globale, creazione di nuovi impianti normativi. Tutti ambiti nei quali la Cina sta investendo in modo massiccio e che hanno contribuito a farne una potenza di primaria importanza sullo scacchiere internazionale. Le proposte dei ricercatori saranno raccolte in un volume edito da Routledge, che sarà prevalentemente indirizzato a un’audience di stampo politico.
Usa e Ue: sulla Cina manca ancora strategia condivisa
Dopo un primo incontro svoltosi a Roma lo scorso giugno, il gruppo di ricercatori si è riunito a Leiden, Paesi Bassi, dal 19 al 21 settembre per continuare quello che è stato descritto come un dialogo volto al “riavvicinamento” tra la parte statunitense ed europea.
Se il primo incontro è stato un livellamento del campo di gioco nel quale i ricercatori europei hanno invitato la controparte statunitense a un ascolto attivo che prescinda da demarcazioni ideologiche di opposizione, la due giorni olandese si è svolta con un approccio pragmatico e orientato al riallineamento di interessi lungo l’asse transatlantico. Come constatato durante il primo incontro infatti, l’interpretazione della “sfida cinese” è trattata in termini prevalentemente ideologici da Washington, mentre i diversi paesi europei mantengono una cauta diversificazione di intenti volta a non recidere completamente il legame con Pechino, specie sotto il profilo commerciale. “L’Unione europea non ha altra scelta se non riprendere a dialogare con la Cina”, ha commentato a proposito Philippe Le Corre.
Parole chiave della seconda puntata del Dialogo transatlantico sono state quindi riavvicinamento e condivisione di risorse tra Usa e Ue per poter meglio comprendere non solo la Cina, ma gli interessi dei diversi paesi asiatici e del Sud globale in generale, così da poter rispondere in modo coeso alle sfide globali del futuro. Si tratta di “un esercizio di ricostruzione della fiducia tra diverse parti” come lo ha descritto Sarah Eaton, che passa per esempio dalle iniziative in ambito di standard tecnologici ma anche dal confronto tra sistemi giuridici per proporre un cambio di rotta rispetto all’opposizione manichea degli ultimi anni.
Anche per questo sono in molti a immaginare un approccio triangolare dove Europa e Stati Uniti potrebbero giocare il ruolo di “poliziotto buono e poliziotto cattivo” nel rapporto con la Cina. Una strategia che consentirebbe all’Ue di mantenere aperto il canale comunicativo con Pechino senza soccombere alle pressioni dell’alleato atlantico. Rimane tuttavia chi risponde che l’Europa sia ancora troppo frammentata per potere avere una politica congiunta sulla Cina, e invita a un’autoriflessione prima di una messa in pratica condivisa.
Oltre l’ideologia: cosa vogliamo davvero dal nostro rapporto con la Cina
Molto rumore per nulla. Un messaggio ricorrente da parte degli accademici europei alla loro controparte statunitense riguarda l’approccio interpretativo di alcune delle politiche cinesi maggiormente criticate da Washington, dalla strategia della doppia circolazione al progetto della via della seta digitale. L’Unione Europea, sottolineano alcuni partecipanti, vede ancora opportunità nell’apertura alla Cina laddove il governo statunitense ha fatto delle politiche sulla Rpc una questione di opposizione su base ideologica. Rispondere in modo sparso e affrettato alle iniziative cinesi con un numero sempre più nutrito di sigle e progetti senza obiettivi concreti (tra quelle menzionate il Build Back Better World di Joe Biden e la Global Gateway europea) non fa che alimentare la contrapposizione con il continente asiatico e allontana la possibilità di trovare punti d’incontro con la Cina.
Secondo diversi ricercatori si dovrebbe abbandonare ogni mentalità da Guerra Fredda per non ricadere in corto circuiti che portano a interpretare male alcuni scenari che coinvolgono la Cina. Ne sono esempio la questione dei rapporti Cina-Russia (sui rapporti Cina-Russia qui l’ebook di China Files) e quella delle tensioni sullo Stretto di Taiwan (qui l’ebook su Taiwan). Sulla prima, parte del dialogo tra i vari esponenti del forum si è concentrato sul dissolvere la “falsa equazione” come l’ha definita Una Aleksandra Bērziņa-Čerenkova, che vede Mosca e Pechino come alleati indissolubili. “Se continuiamo a professare che quella tra Cina e Russia è un’alleanza, questa diventerà una profezia auto-avverante nel senso che li spingeremo più vicini”, ha commentato a proposito l’ex diplomatica statunitense Susan Thornton. Sulla questione taiwanese invece, gli esperti invitano a “evitare di reagire in modo ansiogeno a ogni iniziativa cinese” come suggerito da Ryan Hass, e di non trattare Taipei come una semplice pedina incastrata tra grandi potenze. “Se dipingiamo il mondo con un pennello in bianco e nero”, continua Hass, “perderemo una buona parte di mondo in questa importante discussione”.
Abbiamo perso il Sud globale?
E di altre parti del mondo si è parlato in modo dettagliato anche in riferimento al cosiddetto Sud globale. Come sottolineato da un’accademica: “Al momento stiamo parlando del Sud globale ma mai con il Sud globale” ha ribadito più volte Marina Rudyak durante le sessioni di incontro. Per i ricercatori presenti a Leiden il dossier del Sud del mondo presenta un chiaro problema: prima di giudicare le “intenzioni coercitive” cinesi nei paesi dove stanno investendo, Usa e Ue dovrebbero concentrarsi sulla percezione dei paesi che ricevono (generalmente di buon grado) gli investimenti cinesi, abbandonando l’idea che vede il Sud globale come parte del mondo che deve “essere salvata” e concentrandosi invece sul fornire una proposta commerciale e valoriale identificata per esempio come proposto da una ricercatrice italiana nell’impostare degli standard di tipo normativo, ecologico, tecnologico migliori di quella cinese. In altre parole, ascoltare in modo attivo e recepire le necessità dei paesi in via di sviluppo per riuscire a negoziare più spazio di commercio e influenza nel Sud globale.
Sul piano delle iniziative internazionali infine, i ricercatori propongono di interrompere la frenesia da sigle nate negli ultimi due anni e proporre invece una strategia coesa che sia comprensiva di tematiche che vanno dalle infrastrutture alla sicurezza regionale, concentrandosi sugli spazi di sinergia con il Sud globale ancora disponibili nelle infrastrutture soft, invece di competere con la Cina in quelle tradizionali.
Non solo scartoffie: per un’accademia pragmatica al servizio dei policymakers.
Oltre a dare spazio a una nuova generazione di accademici specializzati sul continente asiatico, il ciclo di seminari si propone di colmare il divario tra la comunità accademica e il grande pubblico, ma anche di riuscire a tradurre le riflessioni elaborate dai vari ricercatori in termini che i policy makers possano comprendere e integrare all’interno delle loro politiche nazionali. Non solo scartoffie da abbandonare sulla scrivania di questo o quell’ente governativo. Il Dialogo transatlantico ed europeo sulla Cina punta ad arrivare in prima pagina e per farlo ha già cominciato il dialogo con le istituzioni. È in questo contesto che si è svolto l’incontro tra il gruppo di ricercatori del Dialogo e alcuni rappresentanti del governo olandese presso lo Humanity Hub Centre de l’Aia. Un appuntamento a porte chiuse dove politici ed esperti di settore hanno potuto confrontarsi con gli accademici e capire come poter mettere in comunicazione due mondi che restano spesso slegati.
A Dialogo concluso, la sensazione generale rimane che la discussione sulla Cina da parte di Stati Uniti ed Europa porti necessariamente a un’autoriflessione e che senza una chiara definizione di quelle che sono le priorità occidentali nel confronto con l’Asia, difficilmente si arriverà a una politica coesa. Ma soprattutto resta la raccomandazione degli accademici che ricordano che per mantenere aperto il canale di comunicazione con Pechino serve uno studio approfondito, scevro di preconcetti e opposizioni binarie, perché come ricorda Rudyak: “Se non abbiamo tempo per le sfumature, non abbiamo tempo per i fatti”.
Di Lucrezia Goldin
Giornalista praticante, laureata in Chinese Studies alla Leiden University. Scrive per il FattoQuotidiano.it, Fanpage e Il Manifesto. Si occupa di nazionalismo popolare e cyber governance si interessa anche di cinema e identità culturale. Nel 2017 è stata assistente alla ricerca per il progetto “Chinamen: un secolo di cinesi a Milano”. Dopo aver trascorso gli ultimi tre anni tra Repubblica Popolare Cinese e Paesi Bassi, ora scrive di Cina e cura per China Files la rubrica “Weibo Leaks: storie dal web cinese”.