Negli ultimi anni a Okinawa si è tornato a parlare seriamente di indipendenza dal Giappone. Questo sentimento non è certo nuovo, ma oggi si lega all’altra grande questione: quella dell’allontanamento delle basi militari americane. Ma soprattutto, sottolinea ancora una volta come il territorio delle isole Ryūkyū sia per Tokyo ciò che Xinjiang e Tibet sono per Pechino: territori "nuovi" e instabili. La seconda parte del reportage da Okinawa del settimanale AERA. Qui la prima parte
“Hai sai, gusuuyo chuu wuga nabira” (Buongiorno a tutti, spero stiate bene).
Con questa formula, a Okinawa, chiunque stia su un palco o si alzi in piedi per parlare inizia il proprio discorso. Così senza accorgermene ho finito per memorizzarla. Sentendo il suono gentile della lingua delle Ryūkyū, che qui chiamano l’“isolàno”, si ha l’impressione di essere stati inviati in un paese che non è il Giappone.
il 16 maggio scorso si è aperto alla Okinawa International University di Ginowan il Simposio pubblico dell’Associazione di studi sull’indipendenza del popolo delle Ryūkyū. Tra le centinaia di presenti nell’aula magna, spiccano alcuni ragazzi con i capelli legati nello stile tradizionale di Okinawa. Qualcuno indossa una maglietta con scritto “No alla nuova base di Henoko”. Il giorno dopo si sarebbe tenuta una manifestazione organizzata dai cittadini delle provincia per protestare contro la decisione di spostare la base aerea di Futenma a Henoko.
Un’associazione per soli ryukyuani
In un’atmosfera vivace, prende la parola Saya Takara, professoressa associata della Okinawa University. La voce è rotta dall’emozione. “È nel corso naturale delle cose che a un certo punto una colonia diventi indipendente. In passato quando dicevo di far parte di un’associazione di studi sull’indipendenza, ricevevo gli sguardi di riprovazione degli yamato [termine con cui gli abitanti di Okinawa chiamano i giapponesi delle isole maggiori ndt]; negli ultimi tempi invece qualcuno ha preso a dirmi che sarebbe meglio se Okinawa fosse indipendente. Ad ogni modo, dobbiamo essere noi a valutare se renderci o meno indipendenti [dal Giappone ndt], senza farci confondere le idee dagli yamato”.
Nell’aula risuona un lungo applauso.
Presto l’aria si riempie di frasi dai toni accesi: “Facciamo valere il nostro diritto a decidere per noi stessi”; “L’autodeterminazione dei popoli è un diritto fondamentale”; “Le Ryūkyū un tempo erano una nazione indipendente”; “Ancora oggi siamo una colonia degli yamato”. Quest’insistenza si si lega a doppio filo al no alle basi militari.
Nel suo intervento al simposio, Masaki Tomochi, docente della Okinawa international University, spiega così il legame: “Il principale obiettivo dichiarato dalla nostra associazione in vista dell’indipendenza è la rimozione totale delle basi militari da tutto il territorio dell’arcipelago delle Ryūkyū. Il governo giapponese, però, non ha intenzione di rimuovere le basi. Per far tornare le Ryūkyū un arcipelago di pace, non c’è altra soluzione che istituire un governo autonomo e dichiarare l’indipendenza”.
L’associazione è riservata solo a membri di discendenza ryukyuana. Se anche solo uno dei genitori o dei nonni non è originario di Okinawa, non si viene accettati. Anche se questo criterio di selezione viene spesso criticato dagli altri studiosi di Okinawa, i membri dell’associazione non transigono.
Non mancano certo momenti di discussione, ma i contenuti assumono via via il tenore di dichiarazioni programmatiche tipiche di un movimento politico piuttosto che di una comunità scientifica. Posto dunque che la volontà di raggiungere l’indipendenza delle Ryūkyū è reale, qual è il piano messo a punto per raggiungerla?
Lo spiega Yasukazu Matsushima, copresidente dell’associazione e docente presso la Ryūkoku University nel suo libro Teoria dell’indipendenza delle Ryūkyū:
Il primo passo è approvare nell’assemblea provinciale una risoluzione che porti all’iscrizione di Okinawa nelle “aree in cui è negata l’autonomia politica” da parte del Comitato speciale sulla decolonizzazione delle Nazioni Unite. Dopodiché, in seguito all’iscrizione, sarà indetto un referendum sotto la supervisione Onu: se il popolo dovesse optare per l’indipendenza, si procederà a una dichiarazione. Infine, con la collaborazione dei 5 milioni di ryukyuani in tutto il mondo, sarà richiesto a tutti gli altri stati membri di riconoscere ufficialmente la nuova entità nazionale.
Secondo Matsushima, dopo la fine della Seconda guerra mondiale anche paesi con popolazioni ridotte come Tuvalu (10 mila persone) e Palau (20 mila) hanno ottenuto l’indipendenza. Tra i 193 stati membri delle Nazioni Unite ci sono infatti oltre 50 paesi con una popolazione pari o inferiore al milione e 400 mila della provincia di Okinawa.
Divisi sulla scissione fin dall’antichità
L’indipendenza di Okinawa non è certo un tema nuovo. Okinawa è in fin dei conti stata per 500 anni un regno autonomo. Con l’annessione delle Ryūkyū in epoca Meiji [1868-1912, ndt], ipotesi d’indipendenza e di scissione dal Giappone sono riemerse più e più volte. Non che i suoi candidati riescano a raccogliere molti voti, ma ancora oggi a Okinawa esiste un partito politico, il Kariyushi club (l’ex Partito per l’indipendenza delle Ryukyu) che fa dell’indipendenza delle Ryūkyū la propria bandiera.
Secondo una ricerca condotta nel 2005 da un gruppo di studiosi, i sostenitori dell’indipendenza erano il 25 per cento della popolazione della provincia di Okinawa. In termini di autonomia economica, però, la percentuale saliva al 50 per cento. Invece, secondo un sondaggio del Ryūkyū shimpō di fine maggio scorso circa il futuro di Okinawa, il 66,6 per cento degli intervistati si diceva favorevole al mantenimento della situazione attuale (Okinawa come un’amministrazione territoriale dello stato giapponese), il 21 per cento era a favore della trasformazione in zona economica speciale, mentre l’8,4 per cento era per l’indipendenza. Il sondaggio evidenziava un risultato sbilanciato a favore del mantenimento dello status quo.
Eppure negli ultimi tre-quattro anni l’indipendenza sembra essere diventata argomento di discussione quotidiana tra la gente di Okinawa.
I membri dell’associazione per l’indipendenza sono oltre trecento. Si riuniscono due volte all’anno. Il simposio di cui raccontavo in precedenza è già arrivato alla sua decima edizione. Per essere un’associazione scientifica come altre, si può dire che sia considerabilmente attiva e che l’energia del movimento politico si trasmetta direttamente al di fuori delle sedi dei convegni.
Masahide Ōda, ex governatore della provincia e membro dell’associazione, dice con lo sguardo fisso: “Sto ancora facendo ricerca sulla questione dell’indipendenza e perciò mi riservo di rivelare la mia posizione — mi spiega. Ma ora dell’indipendenza non stanno discutendo i politici, ma ricercatori in grado di analizzare il problema a fondo dal punto di vista economico e del diritto internazionale. Sta qui la principale differenza con quanto succedeva in passato”.
Chi più di tutti ha ravvivato il dibattito sull’indipendenza è stato proprio l’attuale primo ministro Shinzō Abe. Il trasferimento di Futenma a Henoko procede a poco a poco come pianificato ai vertici della politica giapponese. Nonostante la popolazione locale abbia espresso più volte (alle elezioni per la camera bassa, alle elezioni per il governatore della provincia e financo alle elezioni per il sindaco della città di Nago) una netta opposizione ai piani del governo, niente sembra destinato a cambiare.
Moriteru Arasaki, uno dei più importanti storici di Okinawa e professore emerito della Okinawa University, critica l’ipotesi dell’indipendenza sostenendo che sia una cosa fuori dal normale e che non esista “una realtà politica” adatta a questa trasformazione. Anche lui riconosce però che questa idea sia sempre più diffusa. “vedendosi ignorati dall’amministrazione Abe, molti pensano che, in mancanza di alternative valide, l’unica possibilità sia l’indipendenza”.
Il 20 maggio al Club dei corrispondenti esteri di Tokyo anche il governatore della provincia Takeshi Onaga ha parlato dell’indipendenza in termini favorevoli. “Sul piano pratico è tutt’altro che facile, ma se l’indipendenza diventa impossibile, verrà meno la nostra determinazione. E a un certo punto ci diranno di far spazio a nuove basi”.
“Con il Trattato di San Francisco Okinawa è stata separata dal Giappone. Mi domando se più che essere noi a volere l’indipendenza, come allora non è il Giappone che ci vuole tagliare fuori. È questa la mia preoccupazione più grande”.
“Via dal Giappone!”: una manifestazione contestata
L’accendersi del dibattito sull’indipendenza si lega anche all’esperienza della discriminazione. A gennaio 2013 sindaci e presidenti delle assemblee locali sono andati a Tokyo per consegnare al primo ministro Shinzō Abe una petizione contro l’impiego dei convertiplani della marina Usa “Osprey” a Okinawa e hanno partecipato a una manifestazione al parco di Hibiya. In quel momento, dai passanti hanno iniziato a piovere parole violente: “Se il Giappone vi così schifo, andatevene via!”. Chi dei presenti alla manifestazione di Tokyo è tornato poi ad Okinawa dice di aver iniziato a pensarci sul serio.
Anche su internet il tema dell’indipendenza delle Ryūkyū richiama ogni genere di insulto. Mentre è sempre più scontro tra chi odia Okinawa e chi invece vuole l’indipendenza, molti okinawani in cuor loro sono giorno dopo giorno più inclini verso quest’ultima.
Nell’aula dove si è tenuto il simposio dell’Associazione di studi sull’indipendenza del popolo delle Ryūkyū c’erano anche alcuni giornalisti dell’agenzia di stampa governativa cinese Xinhua.
Quando Xinhua invia giornalisti all’estero, di solito è perché c’è qualche questione che per una ragione o per l’altra il governo di Pechino vuole far conoscere ai cinesi. Eppure l’affermazione circolata in certi ambienti secondo cui dietro il movimento per l’indipendenza di Okinawa ci sia la Cina non ha nessun fondamento. La Cina è semplicemente interessata alla questione okinawana perché riguarda una possibile riduzione del numero delle basi militari e una scossa all’alleanza tra Giappone e Stati Uniti.
È probabile che l’associazione debba avvicinarsi con cautela alla Cina e fare in modo di non essere sfruttata a proprio svantaggio. Ma più che altro, è probabile che la maggior parte dei giapponesi un giorno rimpiangerà di aver ignorato le rivendicazioni dell’indipendenza di Okinawa e di averle bollate come un capriccio infantile.
Okinawa non è un territorio storicamente giapponese. È anzi un territorio acquisito in seguito alla restaurazione Meiji del 1868, quindi nuovo e instabile, un po’ come il Tibet o lo Xinjiang per la Cina. Una volta che un movimento per l’indipendenza o l’autonomia cresce, basta una piccola scintilla per far cambiare di colpo la situazione. Il mondo è pieno di esempi in questo senso.
Secondo Matsushima la direzione futura del movimento per l’indipendenza di Okinawa dipenderà dall’evolversi della questione Henoko.
“Man mano che il governo giapponese scava nei fondali del mare di fronte a Henoko, si accelera l’arrivo dell’indipendenza. Se invece il governo decidesse di abbandonare i piani per Henoko e di procedere con la restituzione all’uso civile di Futenma e Kadena, nel giro di un’ora le rivendicazioni di indipendenza si faranno più deboli. In altre parole, la questione è questa: o Tokyo sceglie noi o le basi dell’esercito americano”.
Non c’è bisogno di prendere troppo sul serio la questione dell’indipendenza di Okinawa. Eppure anche prendendola troppo alla leggera si possono correre rischi. E Henoko sarà una tappa fondamentale per la soluzione del problema.
*Giornalista, è stato corrispondente da Singapore e Taipei per il quotidiano Asahi Shimbun. È responsabile del sito in lingua cinese del quotidiano ed editor per il settimanale AERA. È autore di numerosi libri disponibili solo in giapponese, tra cui un "Diario della campagna di Iraq" (Asahi, 2003) e altri titoli dedicati alla Cina e al cinema di Taiwan.
[Pubblicato in forma ridotta su Internazionale; foto credit: nyt.com]