Chi è Xi Jinping? Che storia ha e di quali idee, interessi nazionali, economici e geopolitici è portatore? La lunga marcia di un ragazzo diventato adulto in fretta, figlio di un importante collaboratore di Mao Zedong caduto in disgrazia e poi riabilitato. Dalla rivoluzione culturale nelle campagne, vissuta come un trauma, all’incontrastata ascesa allo scranno più alto del Partito comunista cinese: i sogni, le ambizioni e i progetti del nuovo “grande timoniere”. Negli ultimi dieci anni, Xi ha accentrato su di sé il potere decisionale in maniera schiacciante, al punto di diventare ufficialmente «nucleo» (hexin) del Partito ed essere considerato il terzo politico cinese più importante di sempre dopo Mao e Deng Xiaoping. Xi si è intestato il compito di riportare la Repubblica Popolare ai fasti dell’era imperiale e di elevarla al medesimo scalino geopolitico dell’America, se non più in alto. In “Xi Jinping. Come la Cina sogna di tornare impero”, Giorgio Cuscito, analista di Limes, fa luce sulla storia di un uomo temuto e ammirato, ma certamente ancora poco conosciuto in Occidente. China Files vi regala un estratto del libro per gentile concessione dell’editore Piemme.
L’istinto di preservazione statunitense non ammette l’affermarsi di un rivale in Eurasia. Se un altro paese facesse del continente il proprio impero informale poi potrebbe pianificare concrete mire egemoniche anche nelle Americhe, al momento prive di attori in grado di mettere a rischio il primato militare ed economico di Washington.
Ciò ha reso inaccettabile le Nuove vie della seta agli occhi degli strateghi americani e ha innescato la loro opposizione ai piani di Pechino. Il confronto è stato poi acutizzato da eventi specifici avvenuti nell’ultimo decennio: la frattura tra usa e Russia iniziata nel 2014 in Ucraina; lo scoppio dell’epidemia di coronavirus a Wuhan nel 2019; l’aggressione di Mosca nei confronti di Kiev nel 2022; il moltiplicarsi delle operazioni militari di Pechino attorno a Taiwan. In tale arco di tempo, il dialogo tra usa e Cina è diventato sempre più complicato. Agli occhi di Washington, la potenza sfidante è ormai troppo diversa sul piano culturale, ideologico e istituzionale per poter essere assorbita fino in fondo nell’ordine internazionale a guida americana. Viceversa, la Cina considera gli Stati Uniti in declino.
L’incompatibilità sino-statunitense è per certi versi un paradosso visto che per lungo tempo proprio l’America ha rappresentato una fonte di ispirazione per la Cina. In epoca imperiale i cinesi consideravano tale paese come un modello di benessere e grandezza a cui aspirare.
Il primo incontro tra le due collettività risale al 1784, quando la nave mercantile statunitense Imperatrice di Cina approdò a Guangzhou. All’epoca la dinastia Qing si percepiva Zhongguo, cioè “impero al centro” del mondo, superiore per ragioni culturali e morali rispetto agli Stati tributari e ai barbari circostanti. In quel periodo i Qing avevano così tanta stima di sé che non ricevettero nemmeno il console statunitense Samuel Shaw dopo che aveva preso servizio. Il riconoscimento diplomatico tra l’Impero del Centro e gli Stati Uniti avvenne solo nel 1844; quindi cinque anni dopo che nel libro Sizhouzhi (“Storia e geografia del mondo”) elaborata dal mandarino Li Zexu comparisse la prima introduzione dettagliata in cinese sugli Stati Uniti.
Da quel momento in poi i Qing cominciarono a chiamare l’America con nomi diversi, tutti con un’accezione positiva. In particolare, Meilijian Hezhongguo, cioè “gli Stati Uniti della bellezza, del beneficio e della forza”. Il quale poi fu abbreviato in Meiguo, ovvero “Bel paese”, tutt’ora utilizzato. Questi nomi furono certamente coniati in base alla somiglianza fonetica con le parole inglesi, ma anche per via del fascino che innescava quello Stato prospero al di là dell’Oceano Pacifico. Era come se la Cina già carpisse nel Meiguo la capacità attrattiva tipica della superpotenza.
Tra il xix e il xx secolo, i Qing consideravano la politica americana della “porta aperta” come segno dell’appoggio statunitense all’integrità territoriale dell’impero contro le invasioni da parte del Giappone e delle potenze europee avvenute dalle guerre dell’Oppio (1839-1842; 1856-1860) in poi. Al punto che i cinesi chiesero all’America di espandere la presenza nel loro paese. I celebri Quattordici punti enunciati dal presidente statunitense Woodrow Wilson nel 1918 furono rapidamente tradotti e diffusi nell’impero, segnato peraltro dai conflitti tra signori della guerra.
Mao Zedong, all’epoca piuttosto giovane, era affascinato da George Washington e Abraham Lincoln e percepiva nell’America un potenziale alleato contro il Giappone. Inoltre, i cinesi vedevano nella Società delle Nazioni un potenziale campo di applicazione dell’armonia universale elaborata da Confucio, stella polare della cultura di matrice imperiale.
Tuttavia, la prospettiva di Wilson era diversa. Il 28° presidente degli Stati Uniti considerava la Cina uno strumento di cui avvalersi a fini strategici. Al punto che durante la Conferenza di Parigi del 1919, lasciò la penisola dello Shandong (dove nacque proprio Confucio) agli occupanti nipponici. I rappresentanti della Repubblica di Cina – fondata nel 1912 sulle macerie della dinastia Qing – lasciarono Parigi. Il 4 maggio a Pechino migliaia di giovani protestarono contro il proprio governo e i paesi occidentali. Questo malessere divenne la base del nazionalismo cinese su cui poi avrebbero fatto leva sia Kuomintang sia il Partito comunista fondato da Mao nel 1921. Il tradimento americano spinse infatti la Cina a cercare sostegno in Unione Sovietica e ad attingere ai precetti del tedesco Karl Marx. Quindi a un modello alternativo a quello americano ma pur sempre di origine occidentale.
Negli anni della Seconda guerra mondiale gli usa combatterono con il Giappone, intenzionato a espandersi in territorio cinese proprio mentre era in corso il conflitto tra nazionalisti e comunisti. Quando Mao fondò la Repubblica Popolare nel 1949, Washington si schierò con Chiang, rifugiatosi a Taiwan. A quel punto Pechino iniziò ad attrezzarsi per conquistare l’isola anticamente conosciuta come Formosa. Gli usa avevano promesso che non sarebbero intervenuti nella disputa. Tuttavia, l’anno dopo lo scoppio della guerra tra Corea del Nord e Corea del Sud, appoggiate rispettivamente da urss e usa, stravolse gli equilibri regionali.
Dopo un primo avanzamento dei soldati di P’yongyang oltre il 38° parallelo, le forze onu guidate dagli usa intervennero nella penisola. Nel frattempo, il presidente usa Harry S. Truman inviò la Settima flotta nello Stretto di Taiwan per impedire a Pechino di approfittare del momento e quindi di sbarcare sull’isola. Dopo che il contingente onu prese P’yongyang, Mao scelse di rimandare l’invasione e inviò i soldati nella penisola coreana per impedire agli americani di giungere fino al confine sino-coreano. I cinesi costrinsero gli Stati Uniti alla ritirata; occuparono persino Seoul per poi essere ricacciati nuovamente a nord del 38° parallelo. I combattimenti si conclusero con un armistizio nel 1953.
Oggi Pechino celebra la cosiddetta “guerra per resistere all’aggressione americana e aiutare la Corea” al fine di alimentare il sentimento di appartenenza nazionale e di dimostrare che non bisogna avere paura degli usa. Nel 2020, Xi e i mezzi di comunicazione fedeli a Pechino hanno commemorato il 70° anniversario di quell’operazione militare con esposizioni, documentari, film e consegna di medaglie ai veterani di guerra. Eppure il governo cinese tralascia un dato fondamentale: in quel momento la neonata Repubblica Popolare scongiurò la formazione di un satellite americano lungo i propri confini, ma per farlo fu costretta a rinunciare a Taiwan, che era ed è ancora l’obiettivo principale della Cina sul piano geostrategico.