Una nottata di incidenti a Hong Kong, dove i manifestanti di Occupy hanno cercato di assediare i palazzi del governo nella zona di Admiralty, lascia molti interrogativi sul futuro di un movimento che probabilmente finisce qui, per come l’abbiamo conosciuto finora. Continuerà, probabilmente, come coscienza profonda di un’intera generazione, che in questi due mesi ha fatto un corso accelerato di formazione politica.
I leader della Hong Kong Student Federation avevano chiamato alla mobilitazione generale nella giornata di domenica. Alla sera, migliaia di attivisti hanno circondato gli uffici del governo locale, mentre altri si dirigevano a Mong Kok, il presidio sgomberato solo pochi giorni prima. Alcune centinaia indossavano protezioni simili a quelle che abbiamo visto nei nostri movimenti a cavallo tra anni Novanta e Duemila: caschi, occhialoni e imbottiture varie per una massa che preme senza compiere violenze esplicite, ma con le cautele necessarie a non farsi male.
Hanno trovato ad accoglierli tremila agenti ad Admiralty e quattromila Mong Kok, che li hanno respinti a spray urticante e manganellate. Parecchi i feriti leggeri. La Hospital Authority ha riportato martedì che 58 persone, tra cui 11 agenti di polizia, sono finite al pronto soccorso nei vari ospedali di Hong Kong.
Il tentativo di determinare una escalation sembra a questo punto fallito, non tanto per le botte, quanto per il fatto che la nuova strategia non sembra incontrare la simpatia degli hongkonghesi. Nei giorni scorsi era circolato un sondaggio indipendente dell’Università di Hong Kong, secondo cui la maggioranza della popolazione sarebbe ormai stufa delle agitazioni.
Oggi si moltiplicano i commenti che denunciano l’abbandono della linea non-violenta proclamata finora dal movimento, mentre anche diversi leader dei partiti pan-democratici – quelli che nel LegCo (il parlamentino locale) stanno all’opposizione – prendono le distanze.
Non giova l’immagine di confusione crescente che trasmettono i portavoce. Alex Chow, leader degli studenti, ha prima rivendicato i tentativi di ri-occupazione, dicendo che sono stati tutto sommato un successo, visto che hanno impedito agli impiegati pubblici di andare al lavoro nella mattinata di lunedì. Poi ha parlato invece di fallimento, accusando però la polizia di violenze.
Dall’altra parte della barricata, il chief esecutive Leung Chun-ying, dato per morto politicamente solo poche settimane fa, può permettersi oggi di dichiarare pubblicamente che l’estrema tolleranza mostrata finora dalla polizia non deve essere scambiata per debolezza. Suona come la minaccia velata di chi si sente ormai in una botte di ferro.
Il movimento che chiede una “democrazia genuina” ha in realtà perso impeto quando non ha saputo passare dalla fase della piazza alla fase politica, circa un mese fa. Troppo variegato al suo interno, basti pensare che in Occupy convivono gruppi che dalle nostre parti definiremmo sindacalisti rivoluzionari o marxisti e formazioni xenofobe come Civic Passion (versione anglicizzata del cantonese “cittadini dal sangue caldo”), un gruppo che rivendica un’identità hongkonghese contro i cinesi del continente, definiti “locuste”.
La leadership “spontanea” degli studenti non ha mai avuto l’appoggio di tutti e quello che si decideva ad Admiralty molto spesso non valeva a Mong Kok, sito più working class, a composizione mista, e meno predisposto al compromesso politico.
In mezzo alle diatribe di linea, c’è la moltitudine degli studenti, forza lavoro in divenire che sente il peso di un futuro non più garantito. La Hong Kong post-handover (1997) si è basata su un’alleanza tra Partito comunista cinese e locali tycoon, che ha garantito fedeltà politica al primo e continui arricchimenti ai secondi.
Oggi, difficilmente un giovane può pensare di comprare casa, dato che ai tradizionali prezzi immobiliari altissimi si è aggiunto il dumping sociale che arriva dal continente, con lavoratori disposti a lavorare per molto meno che abbattono le certezze di un lavoro ben retribuito.
La minaccia di trasferire le attività produttive a nord, dove costa meno, mettono la forza lavoro in posizione subordinata rispetto a tycoon come Li Kashing, l’uomo più ricco d’Asia, con un impero che va dai moli ai supermercati. Hong Kong è l’unica “provincia” della Cina dove i prezzi immobiliari crescono più dei salari.
La lotta sulla riforma elettorale in vista delle elezioni del 2017 nascondeva quindi ragioni ben più materiali. Ma questo non è mai stato esplicitato all’interno del movimento, che ora sconta le divisioni e la sterilità di una lotta tutta politica. Dopo le fiammate dell’inizio, molti hongkonghesi hanno semplicemente deciso di tornare alla vita di tutti i giorni.
[Pubblicato in versione ridotta su il manifesto; foto credit: washingtonpost.com]