I dazi promessi da Trump sono realtà: da venerdì si è attivato l’aumento delle tariffe dal 10% al 25% su 200 miliardi di beni cinesi, come promesso – da tempo – da Trump. Poco prima del via libera abbiamo assistito a ore frenetiche di trattative concluse con un nulla di fatto. Ma la percezione è che, benché arriveranno contromisure, Cina e Usa si siano lasciati senza screzi e strappi e siano pronti a tornare al tavolo per negoziare. Almeno, questa è la sensazione a seguito delle dichiarazioni di Liu He, il capo negoziatore cinese. Seguiranno dunque nuovi tentativi di trovare un compromesso tra complicazioni ovvie.
E proprio il presidente americano è uno degli elementi di maggiore incertezza in tutta questa vicenda.
Ieri con un paio di tweet ha prima confermato la decisione di dare il via ai dazi, in secondo luogo ha annunciato manovre Usa per tamponare eventuali problemi, come ad esempio quelli registrati dagli esportatori di soia colpiti già in passato dalla risposta cinese. Come si può vedere in questo tweet, Trump promette di comprare la soia dopo che negli ultimi giorni dal Midwest, il suo bacino elettorale, si era alzata e non poco la preoccupazione dei coltivatori: quest’ultimi temono che a fronte dell’aumento dei dazi americani contro i prodotti cinesi, Pechino possa diminuire ulteriormente i propri acquisti già fortemente ridotti dopo le precedenti sanzioni.
A PECHINO il clima non è più tranquillo: giovedì Liu He – il capo negoziatore cinese – è uscito dal confronto con gli americani dopo soli 90 minuti, un segnale di un accordo impossibile. All’interno di questa vicenda c’è sicuramente anche un problema politico di cui tenere conto.
Xi Jinping non può portare a casa un accordo svantaggioso con gli americani perché questo lederebbe la sua «Nuova Era» basata su un mix di nazionalismo e orgoglio nazionale (non a caso Xi Jinping – fin dal suo arrivo al vertice del potere cinese – ha parlato spesso di «rinascita della nazione cinese» e non a caso tra le risposte cinesi c’è anche chi ha immaginato un invito a boicottare i prodotti americani da parte dei cinesi).
A questo proposito, in un articolo sulla corsa agli armamenti apparso sul Financial Times, uno degli operatori cinesi ha raccontato che Xi Jinping, rispetto agli Usa, non vuole fare la fine di Yuan Shikai, generale e politico cinese la cui parabola è collegata alla fine dell’Impero cinese e all’inizio dell’era repubblicana. In questo caso il riferimento vuole riferirsi all’accusa, nei confronti di Yuan Shikai, di aver dimostrato poca forza contro gli stranieri. Ma Yuan Shikai arrivò anche al punto di autoproclamarsi imperatore. Analoghe problematiche, dovute all’iper accentramento di potere nelle mani di Xi Jinping, sono state sottolineate da Jamil Anderlini sempre sul Financial Times.
Inoltre, particolarmente preoccupati in Cina sembrano essere gli esportatori: mentre il Tesoro americano aveva già – in pratica – attivato i nuovi dazi, molti di loro hanno cercato di chiudere accordi in fretta entro la giornata odierna, per non incorrere nel nuovo aumento.
Uno spiraglio di soluzione tra le due potenze, in realtà, è sembrato aprirsi in concomitanza con la risposta cinese, «reagiremo», e con la constatazione che l’arma principale nelle mani di Pechino sarebbe già stata azionato: nei giorni scorsi le aste del Tesoro Usa per i titoli di stato (il debito americano è in gran parte in mani cinesi e giapponesi) sono state disertate dalla Cina. Come segnalato da Il Sole 24 ore, «la Casa Bianca aveva seguito quasi con “terrore” l’esito disastroso di ben due aste consecutive di Titoli di Stato: quella del 7 maggio (il giorno dopo l’annuncio di nuovi dazi da parte di Trump) quando il Tesoro ha chiuso con un fiasco il collocamento di 38 miliardi di titoli a 3 anni, e quella dell’8 maggio su 27 miliardi di dollari di bond decennali».
Del resto Pechino ha un ampio spettro di soluzioni, benché nessuna di queste potrà bloccare una inevitabile ricaduta sulla propria crescita: nuova liquidità e sussidi alle aziende di stato, manovre monetarie (per consentire allo yuan di essere ancora più competitivo, considerando l’aumento delle tariffe), sgravi fiscali.
MA GLI ESPORTATORI cinesi sembrano essere nel panico: l’accelerazione di un processo che si pensava sarebbe finito con un compromesso, ha reso nervose molte aziende cinesi. Alcune di loro stanno già ragionando in termini di delocalizzazione, ad esempio in Messico, ma è probabile che la «fabbrica del mondo» potrà accusare un rallentamento. Da parte sua Trump sembra sottovalutare le conseguenze di uno scontro commerciale che, come hanno sempre ricordato i cinesi, non avrà un vincitore.
Quanto a livello globale, come segnalato dalla Bbc, la guerra commerciale Usa-Cina ha pesato sull’economia globale nell’ultimo anno e ha creato incertezza per le imprese e i consumatori. Anche se Trump ha minimizzato l’impatto delle tariffe sull’economia degli Stati uniti, è probabile che l’aumento inciderà su alcune società e sui consumatori americani, che finirebbero per pagare parte dei costi delle sanzioni. Deborah Elms, direttore esecutivo presso l’Asian Trade Center, ha dichiarato che questa ondata di dazi «sarà un grosso shock per l’economia: le aziende americane dovranno affrontare un aumento dei costi e la vendetta dei cinesi».
Unitamente a questo c’è da considerare che Trump, da quando è arrivato alla Casa Bianca nel novembre 2016, ha caratterizzato la propria presidenza con dazi a pioggia, come si evince dal seguente grafico.
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.