Per chi legge l’attualità giapponese attraverso la lente di un giornale scritto in inglese, fino a un paio di settimane fa il Japan Times era un punto di riferimento, e non solo per il lavoro di cronaca economica, politica e sociale, spesso fuori dal coro rispetto agli esclusivi circoli della stampa giapponese.
Il comunicato con cui la direzione del giornale ha annunciato una svolta editoriale ma, soprattutto, linguistico-lessicale, nella sua narrazione di alcuni degli eventi più controversi della storia del Giappone moderno ha sorpreso e indispettito molti.
Nel testo, pubblicato nell’edizione di venerdì 30 novembre, si legge che il giornale non userà più il termine lavoratori “deportati” per parlare delle migliaia di lavoratori coreani costretti durante la seconda guerra mondiale a emigrare e offrire la propria manodopera nelle fabbriche nipponiche ma userà il più generico lavoratori “del tempo di guerra”. Inoltre, non parlerà più delle cosiddette “donne di conforto” – già di per sé un eufemismo – per parlare delle donne impiegate nei bordelli militari giapponesi ma userà una perifrasi che darà conto anche della volontarietà di alcune nel “fornire sesso” ai soldati giapponesi.
Se il secondo caso è ascrivibile a una tendenza all’autocensura della stampa e dei media giapponesi accentuatasi dal 2014, dopo che il secondo maggiore quotidiano nazionale, l’Asahi, fu costretto a ritrattare una serie di articoli sulle “donne di conforto”, il primo è invece legato a fatti recenti che hanno portato a un raffreddamento delle relazioni tra Giappone e Corea del Sud.
Lo scorso 29 novembre, la Corte suprema di Seul ha ordinato alla Mitsubishi Heavy Industries – il ramo del conglomerato Mitsubishi attivo, tra gli altri, nel settore cantieristico-navale, delle infrastrutture e dell’energia – di pagare un indennizzo economico a due gruppi di cittadini sudcoreani costretti a lavorare per l’azienda durante la Seconda guerra mondiale.
L’indennizzo ammonta a 150 milioni di won, l’equivalente di 133 mila dollari. Una vittoria storica per le vittime e le loro famiglie che sono tornate a chiedere giustizia e scuse ufficiali da parte giapponese.
Protagonisti di una delle due cause, infatti, erano cinque uomini – morti nel corso dei vari passaggi legali iniziati nel 2000 – deportati dalla Corea al Giappone come manodopera a costo zero nel 1944 e costretti a lavorare in uno stabilimento Mitsubishi che produceva munizioni e infine esposti al bombardamento atomico su Hiroshima.
Nell’altro caso, a chiedere un compenso era un gruppo di donne costrette invece a lavorare in uno stabilimento che assemblava aeroplani.
E, come già in passato, ecco il cortocircuito diplomatico. Poco meno di un mese prima, la Corte suprema sudcoreana aveva emesso una sentenza simile per la Nippon Steel, controllata di un altro grande conglomerato giapponese, la Sumitomo.
A parlare per prima è stata Mitsubishi, uno delle più importanti multinazionali nipponiche attiva dal punto di vista commerciale in Corea del Sud nel settore metallurgico, navale e chimico.
L’azienda ha definito “spiacevoli” le due sentenze e ha citato altre due sentenze emesse dalla Corte suprema giapponese nel 2007 e 2008, che scagionavano di fatto Mitsubishi richiamando gli 800 milioni di dollari in aiuti economici e prestiti a tassi agevolati versati da Tokyo a Seul a seguito del trattato nippo-coreano del 1965, che ha sancito la normalizzazione dei rapporti tra i due vicini asiatici.
Dura anche la reazione del governo giapponese. A stretto giro dalla sentenza della Corte suprema di Seul, il viceministro degli Esteri nipponico Takeo Akiba ha convocato l’ambasciatore sudcoreano a Tokyo mentre il ministro Taro Kono protestava ufficialmente contro la sentenza.
Il capo segretario di gabinetto – il portavoce-capo del governo giapponese – Yoshihide Suga ha inoltre confermato la determinazione dell’esecutivo di proteggere a tutti i costi le attività delle aziende giapponesi anche ricorrendo a una corte di arbitrato internazionale.
«Ho vissuto tutta la mia vita piangendo», ha spiegato alla stampa Kim Seong-ju, 90 anni, sopravvissuta a quell’epoca. «L’azienda mi ripeteva che mi avrebbe fatto tornare a casa in qualsiasi momento ma non lo fecero. Nemmeno quando morì mio fratello».
«Il Giappone dovrebbe chiedere scusa e versare gli indennizzi», ha concluso la donna.
Intanto, però, ad allontanare ulteriormente i due governi è intervenuta la decisione sudcoreana di dissolvere una fondazione creata nel 2015 con il supporto economico di Tokyo – circa 9 milioni di dollari — per fornire assistenza alle donne costrette a prostituirsi nei bordelli militari giapponesi tra gli anni ’30 e ’40 del secolo scorso oggi ancora in vita.
A cinquant’anni dalla normalizzazione delle relazioni bilaterali, dal punto di vista del governo giapponese, l’accordo era la parola “fine” sulla diatriba legata alle “donne di conforto”. L’attuale amministrazione ha però definito l’accordo del 2015 esclusivamente politico e non legalmente vincolante e ha sostituito i fondi giapponesi con capitali pubblici propri.
«Molte ex donne di conforto», ha spiegato recentemente il ministro degli Esteri giapponese, Taro Kono, «apprezzano gli sforzi del nostro Paese».
Questa posizione non è però mai stata condivisa dall’attuale governo sudcoreano, guidato dal riformista Moon Jae-in, salito al potere nel 2017 anche con la promessa di mettere mano all’accordo con il Giappone del 2015.
Oggi, le relazioni bilaterali tra i due vicini asiatici corrono su binari paralleli. Da un lato, soprattutto sul capitolo Corea del Nord, Tokyo e Seul sono costrette a cooperare, anche sotto la pressione di Washington. Dall’altra, i due Paesi rimangono divisi dalle questioni storiche legate all’occupazione giapponese della Corea tra il 1910 e il 1945. E non è detto che questi binari si incroceranno a breve.
[Pubblicato su Eastwest]